di Effegi
Quello che ha detto Roberto Vecchioni ospite di In Altre Parole mi fa riflettere. Il suo discorso sull’Europa che deve vincere contro Putin è chiaro, determinato, e certo non gli si può rimproverare ambiguità. Ma c’è un modo in cui lo dice che rende tutto meno convincente. Il suo è un linguaggio sempre molto denso, intriso di cultura classica, ma anche intriso di un giudizio che sembra non lasciare spazio a sfumature. Parla con l’autorità di chi conosce le radici del pensiero occidentale, eppure questa erudizione sembra quasi irrigidirlo, come se lo rendesse impermeabile alla complessità del presente. Non c’è spazio per il dubbio, per la riflessione, per una visione che vada oltre la condanna netta e la presa di posizione granitica.
Ma al di là di Vecchioni, quello che dice sull’“identità guerriera” dell’Europa mi sembra il nodo centrale della questione. Da tempo ormai si è fatta strada l’idea che l’Europa sia stata forgiata dalla guerra e che, avendola ripudiata, abbia perso qualcosa di essenziale, come se la sua anima si fosse in qualche modo affievolita. È un pensiero che non nasce dal nulla, ha radici profonde nel modo in cui la storia è stata raccontata per secoli. Il racconto epico delle battaglie, delle conquiste, degli imperi nati e crollati sotto il peso delle armi ha sempre avuto un fascino irresistibile. Ma oggi questa visione viene rilanciata con una nuova urgenza, quasi con una punta di nostalgia, come se la pace non fosse stata una conquista, ma una perdita.
Eppure, guardando alla storia recente, l’Europa ha scelto una strada diversa. Il Manifesto di Ventotene (Per un’Europa libera e unita, ndr), scritto in un’epoca in cui la guerra sembrava l’unico destino possibile, immaginava un continente unito non dalla forza, ma dalla volontà di superare il conflitto come strumento di relazione tra gli Stati. Da lì è nato il progetto europeo, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, ma con un’idea chiara al centro: la guerra non è il nostro destino, non è la nostra identità.
Eppure, oggi questa idea è in crisi. Non perché la realtà ci dimostri che è sbagliata, ma perché è diventato più difficile difenderla. La pace, paradossalmente, ha meno appeal della guerra. Le immagini della resistenza armata, della lotta, della difesa eroica parlano a un istinto primordiale, a una parte dell’essere umano che riconosce nella violenza un linguaggio antico, quasi naturale. E questo è un problema, perché il pensiero occidentale, da secoli, ha cercato di costruire qualcosa di diverso.
Dal logos greco all’Illuminismo, la nostra cultura ha sempre saputo che l’uomo ha dentro di sé una componente violenta. Ma non l’ha mai celebrata. L’ha studiata, analizzata, cercata di governare. La civiltà è nata proprio dal tentativo di contenere quella parte selvaggia, di costruire regole, istituzioni, strutture che permettessero alla società di evolversi senza distruggersi. Oggi, però, questa fiducia nel pensiero razionale è in crisi. E quando il pensiero entra in crisi, le risposte diventano più istintive, più semplici, più pericolose.
Ecco perché si torna a parlare di “identità guerriera”, di un’Europa che avrebbe bisogno di ritrovare il suo spirito combattivo per non soccombere. È una narrazione che ha il sapore del passato, ma che viene proposta come l’unica possibilità per il futuro. Ed è qui che sta il vero pericolo: non nella realtà della guerra, che purtroppo esiste e con cui dobbiamo fare i conti, ma nell’idea che la guerra sia l’unico modo per esistere.
Ma l’Europa è già qualcosa di diverso. Ha già dimostrato di poter costruire un’identità che non si fonda sulla violenza, ma sulla cooperazione, sulla cultura, sulla democrazia. Certo, questo modello oggi è fragile, messo in discussione da dentro e da fuori, ma è l’unica strada che può veramente distinguere l’Europa da tutto ciò che è venuto prima. Il vero rischio non è che l’Europa sia troppo pacifica, ma che dimentichi il motivo per cui ha scelto di esserlo.
(10 marzo 2025)
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