di Daniele Santi, #Politica
Nei giorni scorsi Renato Brunetta ha per l’ennesima volta affrontato l’argomento della rifondazione della classe dirigente italiana, vedasi Pubblica Amministrazione. Ci prova dagli anni ’90, quando si fiondò con Berlusconi alla carica del rinnovamento del paese all’insegna del nuovo miracolo italiano che lasciò l’Italia peggio di come l’aveva trovata (c’erano già anche i leghisti, Salvini, Meloni e La Russa. Erano già tutti lì. Son passati trent’anni, dicono ancora le stesse cose che non hanno realizzato e gli italiani continuano a cascarci).
Ma Brunetta (che è uomo preparatissimo, gliene va dato atto), va avanti per la sua strada come se tutto fosse a portata di mano, rendendosi conto che a portata di mano non c’è nulla e che il tempo è poco per l’opera mastodontica che è il rinnovamento della Pubblica Amministrazione, tra capetti, raccomandati, e semi-analfabeti laureati, per i quali persino un computer è un mistero.
Così mette in fila un po’ di cose: un ricambio generazionale per dotare il Paese di una nuova classe dirigente pubblica in grado di cogliere le sfide del Recovery Plan. Quindi incentivi per togliersi dai piedi, chiamatelo pensionamento anticipato, e rimpiazzamento del vecchiume con giovani virgulti presumibilmente preparati e motivati, dicasi profili con alte qualifiche di formazione e elevata professionalità tecnica. Semplificazioni procedurali, basta coi concorsi centralizzati, procedure di reclutamento digitali fin lassù, ad una banca dati dei fabbisogni. Insomma tante cose da fare già annunciate almeno cinque volte che non sono state fatte mai. E vista la prospettiva di vita del governo Draghi, e a meno di un miracolo, la proposta di Brunetta sembrerebbe morta mentre la pensava. Ma vogliamo avere fiducia come se in questo paese la fiducia fosse una cosa seria.
(12 marzo 2021)
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