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“Pagliacci” di potere e “pagliacciate” sanremesi

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di Vittorio Lussana

Dopo le polemiche legate a Sanremo, relative alla frase del cantante Ghali contro la spedizione punitvia di Israele a Gaza, il senatore della Lega e sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alessandro Morelli, ha proposto la sua liberalissima soluzione: Sarebbe utile”, ha spiegato in un’intervista al Il Tempo di Roma, “cominciare a pensare a una sorta di Daspo per chi utilizza quel palco per fini diversi da quelli della musica. Un artista fa musica, non politica.

Cominciamo col dire che uno che arriva con l’ultimo treno a scoprire che gli artisti in generale, compresi quelli del nostro panorama musicale, producano contenuti e non solamente intrattenimento evasivo, non si capisce su quale pianeta abbia vissuto fino a oggi. In secondo luogo, col diritto d’autore come la mettiamo? La legislazione in materia si è molto sviluppata: quanto costerebbe allo Stato finire in tribunale per le varie richieste di risarcimento a causa di censure e amputazioni dei testi? I democristiani ci hanno provato in passato: si faccia dire, il sottosegretario Morelli, com’è andata a finire e quale figura ha fatto la Dc: si finisce sui libri di Storia come classico esempio di compressione dei diritti e della libertà di espressione del singolo artista.

Il diritto di libera espressione o d’indipendenza di artisti e cantanti ha già fatto molta strada, sia in Italia, sia nel resto nel mondo. Anche perché spesso proprio gli artisti sono stati utilizzati dal potere, sin dai tempi di Elvis Presley. Il quale, con la propria carriera, ha descritto il perfetto stereotipo di artista occidentale: quello del giovane sottoproletario che, grazie al proprio bell’aspetto e alle sue capacità vocali, riesce a farsi accettare nei salotti del potenti, fino a diventare prigioniero e vittima di quello stesso ruolo e dei suoi malefici meccanismi.

I fratelli Cohen, tanto per citare un esempio, lo hanno inserito, genialmente nel loro cult-movie The Hudsucker Proxy, facendolo apparire all’improvviso in una festa di gala del grande capitalismo americano, al fine di evidenziare le svenevolezze di certe anziane signore o delle tante mogli americane trascurate dai propri mariti. ll modello che Presley ha rappresentato all’interno del sogno americano, consentiva alle mogli, generalmente relegate in cucina a lavare i piatti o in lavanderia a stendere i panni appena usciti dalle prime lavatrici, di subliminare la propria repressione sessuale surrogando il proprio stato di abbandono rispetto al macho americano anni ’50, totalmente dedito al mantenimento di giovani segretarie in carriera o di vere e proprie prostitute d’alto bordo.

Dopo esser stato a lungo utilizzato, Presley si vide superato dai fenomeni musicali successivi e venne abbandonato a se stesso, finendo col riempire il proprio disorientamento personale di fenomeno di consumo attraverso l’alcoolismo e le prime droghe sintetiche immesse sui mercati interni nord-americani. Ovvero, sino alla consunzione definitiva del proprio Io interiore. Nell’ingenua e provinciale ottica della piccola borghesia italiana, improvvisamente resuscitata dal sottosegretario Morelli, il rock’n’roll americano ha rappresentato un fenomeno di rottura, di libertà aggressiva, mentre invece si è trattato di modelli imposti, studiati a tavolino dal mercato discografico, che prima ha diffuso la propria visione di società bruciando gli artisti e poi, quando il loro momento era passato, li sputava direttamente nella spazzatura sociale.

In Italia, le cose sono andate un po’ diversamente: dopo una fase di forte contaminazione americana, che produsse veri e propri cloni di Elvis Presley, quali Little Tony e Bobby Solo, s’impose la nuova moda dei cantautori e della musica d’autore. La quale, in effetti, riuscì a esprimere concetti, sogni e nuovi modelli poetici spostando l’ottica culturale di un’intera generazione verso orizzonti più pensosi e sofferti. Ma in realtà, anche qui da noi la questione è sempre stata assai più controversa: i cantautori italiani si erano resi portatori di un malessere, di una generica ostilità verso le mitologie consumistiche, contro le ipocrisie e il falso perbenismo dei padri. Le loro canzoni, di volta in volta disperate e beffarde, tenere o addirittura imploranti, cominciarono a trattare temi quali la solitudine, gli amori infelici, l’amore in quanto unico antidoto contro la già allora vuota condizione giovanile (“Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare…” sono i fondamentali quanto significativi versi di Luigi Tenco, che identificarono pienamente tali contesti sociale).

Con il suicidio sanremese di Luigi Tenco, che letteralmente giunse come uno schiaffo in piena faccia nei confronti dell’italianità discofila e pudibonda rappresentata dalla nostra subcultura media cattolico-reazionaria, si comprese che il problema stava assumendo contorni maledettamente seri. La musica italiana stava cominciando a esprimere una vera e propria tensione verso altri valori e stili di vita, una certa carica di anticonformismo, un’ansia di rinnovamento. E la storia successiva divenne perciò quella di un vero e proprio scontro generazionale: mentre la televisione si ostinava a proporre al pubblico innocui pastiches di rock edulcorato, orrendamente fusi con la più nauseabonda tradizione neomelodica italiana, una minoranza sempre meno esigua di giovani venne intercettata dall’intimismo spoglio e malinconico di Gino Paoli e Fabrizio De Andrè, evocatori di un mondo che cominciava a sognare un utopico altrove o a rovistare tra le nostre miserie quotidiane.

Lo stesso Giorgio Gaber iniziò a ritrarre, con toni affettuosi e garbati, gli squallidi personaggi della banlieue milanese – ciclisti falliti, maniaci del biliardo, bevitori di Barbera, pregiudicati “usciti da poco” – mentre Enzo Jannacci inizio a raccontarci, con grande ironia, gli sfortunati approcci amorosi dei timidi frequentatori di balere, le gaie prostitute che amavano la musica sinfonica o i barboni coi piedi doloranti che passeggiavano sotto la finestra della loro innamorata calzando “scarp de tennis”. Anche il sommesso ed esangue Sergio Endrigo, prima di lasciarsi trascinare dalle ridondanze della propria vena più crepuscolare, seppe descrivere la disillusione preventiva degli immigrati meridionali, costretti a trasferirsi nel nord’Itaia per riuscire a rimediare un lavoro dignitoso.

Tutto ciò ha generato una frammentazione drammatica, priva di ogni identità culturale, del mondo giovanile italiano. Il quale ha finito col crescere immerso in una confusionaria cultura musicale che ha svariato dalle nenie lamentose di Giliola Cinquetti al rock duro e spavaldo dei Rolling Stones, dalle raffinate partiture gregoriane di Gino Paoli agli strilli vagamente swing di Caterina Caselli e Adriano Celentano, componendo il quadro complessivo di un Paese che non solo tende a cannibalizzare ogni fenomeno artistico che appare all’orizzonte, in nome di un mercantilismo mordi e fuggi – tipico di una mentalità da pezzenti –  ma che da sempre si prostra acriticamente verso ogni imposizione del mercato senza mai riuscire a dominare – o quanto meno a governare – il mondo dei consumi e della produzione di massa attraverso bussole di orientamento e di giudizio che non siano né da apocalittici, né da lobotomizzati.

Questa guerra totale, avvenuta in Italia, ha finito col determinare l’assoluta mancanza di ogni via di mezzo, espellendo definitivamente da ogni genere e tipo di evoluzione artistica una schiera infinita di personaggi che, invece, meritavano una carriera ben diversa e che, spesso, hanno dovuto limitarsi a servire da spunto per programmi televisivi appositamente dedicati al ricordo sguaiato e ridanciano di autentiche meteore artistiche; oppure ancora, alla creazione di veri e propri generi plasmati attorno alla nostalgia di un target di pubblico composto quasi esclusivamente da rintronati, considerati come tali e sottilmente insultati proprio da questo tipo di rappresentazioni.

Si può anche continuare a discutere, oggi, su ciò che quest’antica generazione di artisti abbia rappresentato nel merito della loro ingenuità stilistica o di una quasi stucchevole, ma genuina, semplicità. Ciò che tuttavia non possiamo perdonare è un sistema-Paese che continua a trattare gli artisti e il pubblico dall’alto in basso, in base a un populismo e a un’inculturazione di massa che appiattisce ogni qualità individuale e professionale a mero fenomeno di prostituzione artistica e intellettuale usa e getta.

Questa è stato il percorso del nostro panorama musicale, caro Alessandro Morelli: altro che Daspo agli artisti, che devono preoccuparsi solamente di “farci divertire”, tanto per citare le parole di un ex presidente del Consiglio, anche lui approdato miracolosamente a palazzo Chigi. Un destino da pagliacci, praticamente. Quali voi stessi siete, gentile sottosegretario Morelli.

Con pochissime eccezioni.

 

 

(16 febbraio 2024)

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