di Vanni Sgaravatti
Terzo articolo su quattro, della serie sull’Ucraina dal crollo dell’Unione sovietica fino all’inizio della guerra. (vedi articolo precedente:
“La rivoluzione arancione: l’Ucraina senza Kucma”)
L’Ucraina portò avanti in contemporanea le trattative per il libero scambio con la Russia e di associazione all’UE. Anche se i due trattati di libero scambio non erano compatibili, parte degli oligarchi ucraini spingevano per un accordo con l’Ue, visto che negli ultimi anni era aumentato di molto il volume degli scambi con l’Europa e questo avrebbe aumentato la possibilità di accedere nuovi mercati con prezzi concorrenziali.
Dall’altra parte i gruppi che importavano beni dell’UE e che, grazie alle leggi ucraine, operavano in una situazione di monopolio, non erano favorevoli all’ingresso nell’unione che li avrebbe costretti ad abbandonare la rendita di posizione, dovuti agli incrementi di prezzo praticati sulle merci europee. Una scelta, imposta dal summit di Vilnius del 28/29 novembre 2013, che non poteva accettare per le regole del libero mercato della UE, un’associazione con un governo che avesse spinto verso l’istituzionalizzazione dei monopoli.
Dopo giorni di trattative intense la Russia promise all’Ucraina corposi aiuti economici e sconti sull’acquisto di gas statali, così che Janucovyc annunciò che l’Ucraina non avrebbe firmato l’associazione con l’Ue.
Alla notizia della mancata firma dell’accordo con l’unione europea il numero dei manifestanti aumentò. Si trattava soprattutto di giovani che credevano che questo avrebbe comportato l’abolizione dei visti per i cittadini ucraini che volevano andare in Europa. La reazione-Janucovyc fu violenta e trasformò la protesta in favore di un accordo commerciale con l’Ue, in una protesta politica contro un regime, a dir loro, dittatoriale, in cui ogni espressione di libero pensiero veniva punita con la forza.
Il primo dicembre 2013 una marcia di 400.000 persone riconquistò la piazza e si registrarono scontri con la polizia. I partiti di opposizione decisero di scendere anch’essi in piazza e di occupare il majdan. Janucovyc non era intenzionato a fare alcun passo indietro, mentre i partiti di opposizione chiedevano le dimissioni del governo e la riconsiderazione del trattato a favore della Ue. Gli obiettivi più colpiti dai manifestanti erano le proprietà di Akhmetov, il primo ministro e la residenza privata di Janucovyc, un palazzo del valore di 40 milioni di dollari. I tre leader dell’opposizione, che erano però considerati distaccati dalle proteste di piazza, non seppero prendere iniziative politiche ed erano inerti di fronte ai rifiuti di scendere a patti di Yanukovich.
Sul majdan la tendopoli si estese e si dotò di barricate per evitare che le forze dell’ordine potessero sgomberarla facilmente. Per domenica 19 gennaio fu indetta una manifestazione alla quale parteciparono 200.000 persone, ma l’incapacità di trovare una piattaforma d’azione comune si rese evidente. I leader della protesta dichiararono retoricamente che il leader della protesta era lo stesso popolo ucraino. Fu in quel momento che prese l’iniziativa la parte massimalista dell’euro majdan, chiamata Pravi Sector, guidata da Jaros, un nazionalista capo di un’organizzazione di destra, anche se, in questa fase, il Privat Sector diventò una Federazione di movimenti che riuniva tutti coloro che erano convinti del bisogno di maggiore incisività nelle proteste e della necessità di prepararsi alla guerriglia urbana per difendersi dalla polizia.
I manifestanti, stufi dell’inattività di politici, decisero di muoversi dalla piazza e di risalire la via sulla quale si affacciava il Parlamento la sede del governo, con scontri violenti e molti feriti. A quel punto non si trattava più di una protesta pacifica, come la rivoluzione arancione, ma di un confronto a tratti violento con il governo.
Il governo reagì violentemente alla protesta e la polizia sparò contro i manifestanti, seppure con proiettili di plastica, che però causarono i primi morti. I poliziotti e i gruppi di teppisti reclutati appositamente, compirono veri e propri rapimenti di militanti per tutto il paese, che si conclusero tragicamente col ritrovamento di un cadavere o con il rilascio dopo settimane di torture, come successe a Bulatov. Dopo questi delitti Janucovyc perse ogni autorità, in quanto l’uso di mezzi illegali terroristici per cercare di soffocare la rivolta rivelarono il carattere dittatoriale del potere che stava cercando di instaurare e, quindi, il fine della protesta non poteva, quindi, più essere quello di un semplice cambiamento della politica estera, ma di porre fine al periodo del governo di Janucovyc.
Se da un lato la protesta diventò più violenta, dall’altro, essa si riempì anche di contenuti culturali alternativi. Il majdan divenne un luogo di sperimentazione di una cittadinanza diversa, di una comunità con una socialità fraterna e in cui tutti collaboravano alla creazione di una società più democratica. Il sogno era mettere fine allo strapotere degli oligarchi per creare un paese più giusto economicamente e socialmente.
Vecchi slogan e simboli del nazionalismo ucraino, primo fra tutti il saluto “gloria all’Ucraina”, furono ripresi, ma si riempirono di nuovo significato patriottico. I manifestanti credevano che l’Ucraina fosse al bivio in cui si decideva se il paese sarebbe diventato un regime dittatoriale come la Russia di Putin o una democrazia.
Sono famose le interviste di Anne Applebaum, come riporta nel suo libro “Autarchie” alle giovani contestatrici che continuavano a ripetere: “Tutti i cronisti russi vengono a chiederci chi ci istiga, ma non riescono a credere, che non ci istiga nessuno, che siamo dotati di una nostra propria volontà e vogliamo cambiare l’Ucraina”.
Il majdan si riempì anche di iniziative culturali, furono allestite mostre di fotografie e di quadri, si organizzarono lezioni sulla storia ucraina, fu creato un centro espositivo alle spalle del majdan. Fu attorno a quel centro che si radunarono reparti della polizia per attaccare la piazza ed i manifestanti, che reagirono prendendo d’assedio il museo, costringendo la polizia ad abbandonare il presidio pacificamente.
Un argomento particolarmente spinoso era costituito dalle accuse di antisemitismo lanciate contro i manifestanti nazionalisti dell’euromajdan, che, in realtà erano prive di fondamento, in quanto, seppure i simboli della piazza furono tratti da quelli dell’UPA e dell’OUN, la condanna dell’antisemitismo da parte dei movimenti fu netta, tant’è vero che alle stesse bande di auto difesa parteciparono molti ebrei e la comunità ebraica ucraina si schierò ufficialmente a favore delle proteste. Mentre, al contrario fu negli anni della Presidenza di Yanukovych che erano aumentati i casi di azioni antisemite, mai perseguiti dalla polizia.
La stessa composizione della piazza non era esclusivamente ucraina o ucrainofona. Secondo le ricerche sociologiche svolte nel gennaio 2014 circa il 55% dichiarava l’ucraino come lingua madre, il 26% dichiarava che era il russo, mentre il 19% era bilingue. Si era trattato, quindi, di una protesta con un carattere patriottico, come la bandiera Ucraina e il simbolo del tridente faceva capire, ma non una manifestazione di nazionalismo etnico. A quel punto, una parte degli oligarchi cominciò a schierarsi con i ribelli, tra cui Poroshenko, il “ferrero” ucraino, attivo già nella rivoluzione arancione, ma che successivamente era sceso a patti con Janucovyc, per poi allontanarsi dal potere politico per lo strapotere degli oligarchi dell’est.
In quasi tutte le regioni ucraine, avvennero manifestazioni simili a quella del majdan, i manifestanti presero d’assalto i palazzi del potere e costrinsero i governatori regionali, che erano stati nominati da Janucovyc, a firmare le dimissioni, mentre rimasero pacifiche la Crimea e le regioni di Donetsk e Lugansk.
Janucovyc fu costretto ad una trattativa, anche se nel corso dei colloqui emerse che il presidente non intendeva fare nessuna concessione sostanziale ai rappresentanti delle opposizioni, che avevano l’abitudine di andare a chiedere il parere dei manifestanti. Sintomo del fatto che se non controllavano o guidavano la protesta, ma se ne facevano semplicemente portavoce.
In una situazione di estrema debolezza dei partiti, le proposte del governo erano solo quelle di porre fine alle proteste, senza concedere nulla, facendo crescere l’instabilità del paese, fino alle dimissioni di Achmetov da primo ministro il 28 gennaio 2014, facendo pensare che si sarebbe potuto giungere ad un accordo e ad una soluzione pacifica della crisi attorno a proposte che sembravano accettabili da Janucovyc come: un’amnistia per tutti i manifestanti arrestati o rapiti nel corso delle proteste ed il ritorno alla costituzione del 2004, con il relativo ridimensionamento dei poteri del presidente. Questo avrebbe portato una gestione più collegiale del potere fino alle nuove elezioni presidenziali, che, in teoria, si sarebbero dovute tenere nel 2015.
Il 18 febbraio 2014, in occasione di una possibile ratifica della Rada di questi accordi, buona parte delle organizzazioni del majdan avevano organizzato una marcia verso il Parlamento a sostegno di tali riforme. La polizia aveva permesso loro di proseguire per la via principale e di circondare l’edificio della Rada e il parco Mariinsky. Nel corso della mattinata, però, il presidente del Parlamento si era rifiutato di registrare l’ordine del giorno che conteneva la riforma costituzionale, mentre, contemporaneamente, la polizia reagiva violentemente sparando sui manifestanti.
Come poi divenne chiaro, Janucovyc aveva deciso di utilizzare la forza per soffocare la protesta e, nel corso della giornata, reparti di cecchini della polizia spararono sui manifestanti che scappavano verso il majdan dove le forze di polizia lanciarono un’offensiva contro le opposizioni. La notte fra il 18 e il 19 febbraio si videro scene da vera guerra civile, con la polizia che cercava di forzare le barricate dei manifestanti asserragliati nella piazza; prese fuoco il palazzo dei sindacati che era stato quartier generale ed ospedale dei manifestanti, con un numero non precisato di morti e feriti lì ricoverati.
Lo stato di emergenza del paese provocò l’intervento della diplomazia internazionale e il 20 febbraio i ministri degli esteri di Francia, Germania e Polonia si recarono a Kiev e si incontrarono con le opposizioni per cercare di mettere fine agli scontri, che, in due giorni, avevano provocato 77 morti a cui si aggiunsero altre vittime nelle settimane successive per le ferite riportate durante la guerriglia.
Nella notte fra il 21 e il 22 febbraio, Janucovyc e il presidente del Parlamento fuggirono da Kyiv lasciando la capitale priva delle maggiori cariche istituzionali. Il Parlamento allora votò la decadenza di Janucovyc dalle cariche del presidente che sarebbe stata coperta temporaneamente dal capo della rada. Janucovyc ricomparse poi soltanto il 28 febbraio in Russia, da dove dichiarò di considerarsi ancora l’unico presidente legittimo dell’Ucraina. Secondo le sue parole la sua fuga era stata resa necessaria, per difendere la propria incolumità personale, anche se, in realtà, apparve chiaro che si trattò di un estremo tentativo di mettere in difficoltà le opposizioni, creando un’impasse istituzionale. La fuga in Russia dette credito alle voci che vedevano Janucovyc un pupazzo nelle mani di Putin, vero regista oscuro della conduzione violenta della crisi.
Il Parlamento ucraino cancellò i simboli del potere del dittatore fallito, tra cui la scarcerazione di Tymosenko, simbolo vivente della repressione politica del regime e approvò la data delle successive elezioni presidenziali anticipate, che si sarebbero tenute il 25 maggio.
La situazione nel paese era, però, ancora assai incerta: la rivolta majdan era uscita vincitrice, a costo di moltissime vite umane; i crimini e la fuga di Janucovyc avevano lasciato un paese in rivolta ed economicamente stremato, e avevano creato le premesse per il successivo capitolo della storia ucraina: la guerra civile.
Nel frattempo, il presidente russo, che non aveva del resto mai riconosciuto la validità degli accordi firmati da Janucovyc, in considerazione degli interessi russi sull’Ucraina, compresa la collocazione della propria flotta militare nel porto di Sebastopoli, fece votare dal Parlamento di Mosca un provvedimento che autorizzava a utilizzare le truppe russe sul suolo ucraino. A testimonianza che si stava, già allora, preparando quella guerra che avrebbe cambiato il nostro contesto europeo, anche se molti dalle nostre parti fanno fatica a riconoscerlo. Nel prossimo e ultimo capitolo si ripercorreranno gli ultimi passi che porteranno a quel definitivo cambiamento trasportato dal tragico del vento della guerra.
(21 maggio 2025)
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