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L’Holodomor: l’archetipo orientale di un’Olocausto

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di Vanni Sgaravatti

Dalle parole di Arendt sulla banalità del male abbiamo imparato molto, e dalla storia dei crimini nazisti riportati da testimonianze, romanzi, poesie ed opere cinematografiche intere generazioni hanno imparato molto, al punto da costituire una archetipo culturale che rappresenta per le generazioni post-guerra la madre degli orrori di sistema, orientati all’eliminazione genocidaria di una collettività di milioni di persone.

Molti di noi hanno potuto riflettere sull’effetto nella cognizione della realtà della manipolazione ideologico-propagandistica, sia quella estrema nazista, sia quella sottile e seduttiva dei bisogni indotti dal consumismo, rilevando i fattori comuni di molti tipi di “caverne di Platone”: da quelle che fanno da contorno alle nostre comfort zone occidentali, a quelle che hanno alimentato le visioni totalizzanti e parossistiche del mondo nuovo e dell’uomo nuovo, a partire da quelle del reich millenario. E molti di noi hanno potuto riflettere, partendo da quelle visioni, sui meccanismi di riconoscimento “gruppisti”, che, senza una consapevolezza, possono portare ad un fanatismo identitario.

Generazioni di russi, invece, dopo aver subito per anni la nota propaganda sovietica non hanno avuto possibilità di rielaborazioni culturali profonde, ad eccezione degli intellettuali privilegiati e abitanti nelle grandi città. Prima della meccanica sistematica attuazione del controllo di regime sovietico, c’era lo zar, e dopo non c’è stata quell’esperienza di rottura e discontinuità culturale necessaria per produrre un diverso modo di concepire le relazioni sociali e politiche. E ci sarebbe da chiedersi se questa mancanza di reale rottura non sia uno dei fattori che permetta oggi una acritica adesione alle narrazioni che giustificano l’invasione dell’Ucraina.

Sembra che non riusciamo ad uscire dal nostro occidentalocentrismo, che ci fa avvertire come egemonici e onnipotenti non solo nel bene (portatori di democrazia), ma anche nel male (l’egemonia culturale neoliberista), grazie al quale la parte che dissente dal proprio sistema spiega tutto a partire dalla madre di tutti gli imperialismi, quello occidentale. In questa spiegazione gli “altri” possono essere compagni che sbagliano o soggetti che rispondono in modo eccessivo alle provocazioni occidentali, ma non quelli che proattivamente determinano i conflitti.

Ed è questa considerazione che mi spinge a diseppellire dal buco della storia e della memoria un evento tragico storico, il moderno archetipo di orrori sistematici nella memoria di un popolo, quello europeo orientale. Un evento conosciuto, ma non del tutto compreso: l’Holodomor. Una parola che ha il potere di evocare eventi che si sono negati e rimossi per molto tempo. Holodomor si compone di due parti: holod, che vuol dire fame, e morty, ossia uccidereaffamareesaurire, e che fa riferimento alla spaventosa carestia (provocata) che colpì ferocemente l’Ucraina nel 1932-33.

Ma perché non parlare di “carestia” e usare questa nuova parola? Appunto perché le parole indicano ciò che è stata veramente: non una “normale” carestia, ma quella derivante dalla precisa volontà di un potere che intende, così, distruggere o rendere innocui dei nemici interni. E questo sarebbe proprio quanto accaduto in Ucraina con una serie di azioni orchestrate da Stalin, che ben conosceva le conseguenze: la morte per fame di milioni di contadini e la distruzione (parziale) della stessa vita culturale ucraina.

In Occidente si confonde ancora oggi spesso Ucraina con Russia e si sono messe insieme le vittime del comunismo sovietico, indipendenti dall’appartenenza ad una o all’altra nazione, quando, in realtà, il destino degli Ucraini è stato connotato anche da un’intenzione repressiva specifica. Si tratta di una confusione legata a vicende storiche di lunga durata, oltre che a resistenze ideologiche come ho riportato nel mio precedente articolo. È vero che l’annientamento dell’Ucraina fu preceduto dalla famigerata lotta, distruzione e deportazione di contadini non solo ucraini. Una repressione che mosse dall’invenzione di una fittizia lotta di classe nelle campagne, che induceva a definire, a proprio piacimento, i Kulaki e i sottokulaki. Ma, ai contadini ucraini non fu permesso di auto esiliarsi, vendere, distruggere la loro casa, arruolarsi, farsi assumere in città, coltivare alcunché e non fu dato il passaporto interno, così che non potessero sottrarsi al loro destino: 12 milioni furono i deportati e altrettanto i morti. Alcuni attivisti impegnati in quell’opera di eliminazione si ribellarono, altri difesero i cosiddetti kulaki, qualcuno disse che non ce n’erano, anche se poi venivano accusati dai soviet di essere sabotatori di destra. Ma, nel maggior parte dei casi, l’odio, il disprezzo, come per gli ebrei, verso persone considerati scarafaggi, parassiti subumani venne inoculato. Qualcuno diceva che non si potevano uccidere i bambini, ma veniva poi accusato di non avere coscienza di classe. Tempi orribili per i bambini nel secolo breve, dalla fame ucraina ai forni crematori.

Stalin diffidava dei nazionalismi, fossero pure inseriti nel Partito Comunista (ucraino). Per Stalin era inammissibile che l’Ucraina fosse in qualche modo indipendente, pure se inserita nella Federazione sovietica, e capace, almeno culturalmente, di dare vita ad una “Grande Ucraina”.

Alla persecuzione feroce contro i contadini si aggiunse quella contro la cultura ucraina. Già alla fine degli anni ’20, erano stati emanati due decreti segreti dai russi che attribuirono la colpa delle innegabili difficoltà della collettivizzazione in Ucraina alla apertura verso la cultura di quella Repubblica. La portata dell’attacco alla cultura ucraina risulta evidente semplicemente guardando le cifre: 200 tra i 240 autori che scrivevano in ucraino scomparvero, 62 figure di primo piano furono liquidate, insieme a tutte le strutture e organizzazioni culturali ucraine. Il numero dei professori e di dirigenti fucilati è lunghissimo, come quello del prof sordomuto di linguistica obbligato a confessare, sotto tortura, la sua attività terroristica o come Skrypnik, Procuratore generale ucraino, che si suicidò, perché attaccato per la sua opposizione alla russificazione della lingua. Furono arrestati tutti i Kobzary ucraini, bardi ciechi che ricordavano il glorioso passato dei contadini ucraini. La capitale nel ’33 venne trasferita da Karkiv alla tradizionale sede di Kiev e si avviò una parziale russificazione della lingua Ucraina, anche se l’estirpazione del nazionalismo ucraino non riuscì mai ad essere definitivo.

Stalin l’1/1/33 inviò una lettera ai dirigenti del Partito Comunista ucraino nella quale ordinava che gli agricoltori, individuali e collettivi, che si presumeva nascondessero grano, sarebbero stati passibili di fucilazione o deportazione. O, appunto, di morte per fame. Il Partito Comunista ucraino, ormai terrorizzato, decise di usare il micidiale sistema delle “liste nere”. Non si trattava di una condanna per così dire “morale”, ma mortale.

Chi, infatti, veniva inserito in quelle liste era escluso da ogni possibilità di acquistare qualunque bene di prima necessità, compresi i fiammiferi per accendere il forno dove cucinare un po’ di pane (se era così fortunato da averlo). Ovviamente questa scelta non servì a spingere i contadini a lavorare di più, ma a renderli ancora più soggetti alla fame e quindi disperatamente pronti a fuggire. Chi provava a fuggire in città veniva facilmente espulso e non serve molta fantasia a immaginare che ai contadini il passaporto non sarebbe stato mai concesso. Nella primavera del 1932 la situazione si era ormai evidenziata in tutta la sua gravità, tanto che qualche dirigente del Partito Comunista ucraino trovò il coraggio di esporre, timidamente e con prudenza, la propria opinione. Ad esempio, il “vecchio bolscevico” Petrovs’ky, presidente del Soviet supremo ucraino, scrisse al Comitato centrale del Partito Comunista ucraino, propose che fosse consentito chiedere aiuto, come nel 1921, a organizzazioni internazionali per alleviare la crisi alimentare in corso. Ma, ovviamente, nulla fu concesso.

Stretti collaboratori di Stalin, non esattamente dei cuori teneri e men che meno dei “controrivoluzionari” o dei “nazionalisti ucraini”, segnalavano al leader che a fine 1932 in Ucraina stava accadendo qualcosa di mostruoso legato alla fame. Alcuni di questi cercarono di convincere la moglie di Stalin che non si poteva andare avanti con quegli orrori, ma quando una sera, in una cena lei glielo riferì, la mattina dopo fu trovata suicidata.

Così come sono stati anche i film che ci hanno fatto intuire gli orrori delle guerre, dalle trincee della Prima guerra mondiale ad altro, credo che altrettanto debbano essere riportate le testimonianze senza censurare le parole, come fece Vassily Grossman o Robert Conquest nel suo reportage sul “raccolto di dolore” (op. citata). Consiglio, però, alle persone particolarmente sensibili, di non andare oltre nella lettura su quello che accadde nella orribile primavera ucraina del 1933.

La fame, terribile fosca parola, che raggira l’animo chi non l’ha vissuta e non può immaginare quali sofferenze essa procuri. Era sin troppo facile identificare i contadini affamati: bastava guardare all’aspetto fisico emaciato, ai vestiti a pezzi, alla disperazione negli occhi. Costoro venivano arrestati, portati fuori città e abbandonati al proprio destino. Non esiste niente di peggio per un uomo padre di famiglia che il proprio senso di impotenza di fronte alle preghiere della moglie, quando questa non ha niente da dare ai figli affamati e non c’è niente di più terribile, per una madre, dei propri figli emaciati e sfiniti

La fame ha sempre le stesse manifestazioni: prima il corpo consuma le sue scorte di zuccheri, mentre la mente si concentra sul cibo. Successivamente, in una fase che può durare settimane, si bruciano le riserve di grasso mentre la debolezza aumenta. Poi il corpo umano divora le proteine che ha in sé, cannibalizzando tessuti e muscoli mentre la pelle diventa sempre più sottile e gli occhi si dilatano. Occhi e ventre si gonfiano perché gli squilibri provocano ritenzione idrica, mentre si viene aggrediti da malattie e infezioni. Infine, giunge la morte (Applebaum 2017, p. 308). Più chiara è la descrizione che ne fa Vassilij Grossman, che unisce precisione a forza letteraria: “La neve si era ormai sciolta, quando gli uomini cominciarono a gonfiare, era sopraggiunto l’edema da fame: visi gonfi, gambe come cuscini, acqua nelle budella, tutto il tempo a pisciarsi addosso, non avevano neppure il tempo di andare in cortile (…) (Grossman 1970, p. 145). Si narra come a Vochrovo, la capitale del distretto, in un piccolo parco accanto alla stazione, giacevano e morivano i contadini dekulakizzati provenienti dall’Ucraina: “… arrivava un furgone e Abram vi ammucchiava i corpi, non tutti morivano, molti vagavano lungo squallidi e sporchi vicoli trascinando gambe esangui, gonfie per l’idropisia, scrutando ogni passante con i loro occhi da cani supplichevoli” (Conquest, op. cit.).

Fanatizzati da una propaganda di odio e spinti dalla paura e dalla speranza di aver vantaggi economici, i volontari, o presunti tali, si abbandonavano alla ferocia più pura, picchiando, torturando e, cosa ancora più vile, rendendo immangiabile quel cibo che non fosse stato possibile portare via.

I nomi dei luoghi sono proprio quelli che sentiamo tutti i giorni alla televisione. A Char’ko il 27 maggio del 1933, come a Zitomir, Donec, Poltava, Dneprpetrovsk, ecc. furono lasciati a morire nei carri migliaia di contadini, impossibilitati a coltivare i campi, incapaci di reggersi in piedi dalla fame. Si diceva che gli ucraini volessero sabotare i russi, nascondendo nelle buche il grano oppure non andando a lavorare, prova evidente che da qualche parte lo avevano nascosto. Gli attivisti inviati dalla Russia dissero che dovevano essere sterminati tutti, insieme ai loro bambini e di non farsi ingannare dalle loro urla, perché gli ucraini, anche se non combattevano con il sangue, sempre nemici erano. Se, entrando nei villaggi, qualcuno veniva visto diverso dagli altri, cioè senza il ventre gonfio e bluastro, moribondo questo era un segno che era un terribile Kulako, che aveva nascosto qualcosa. E i moribondi venivano seppelliti nelle fosse comuni insieme ai morti e ci sono relazioni che parlano di ragazzi che stavano in quelle fosse giorni, prima di morire.

La fame distrusse la voglia di vivere e fece impazzire, provocando episodi, riportati dalle fonti orali, ma anche dai cupi verbali della polizia segreta, di cannibalismo e necrofagia. Spesso i bambini erano vittime dei genitori che li divorano. Oppure, accadeva che fossero i genitori a raccomandare ai figli di nutrirsi dei loro cadaveri.

Inizialmente, la fame induceva a comportamenti violenti, aggressivi e dettati da una rabbia disperata e incontrollabile, mariti contro le mogli, genitori contro i figli. Ma poi, con l’avanzare della lenta morte per inedia, anche la rabbia finiva e su tutti calava quel silenzio mortale che colpì i soccorritori quando alla fine arrivarono: interi villaggi vuoti, nessun vivo nelle poche case, nessun animale se non i topi che avevano invaso tutto. Spesso, per non impazzire le madri fuggivano, ma ancor più spesso affidavano agli orfanotrofi i figli in modo da dare loro una speranza.

Conquest riporta (op. cit) una testimonianza: “In una famiglia ucraina, in cui alcuni giacevano a terra respirando appena, la figlia del padrone che conoscevo, deformata, era stesa in terra e rosicchiava il piede di uno sgabello e quando entrai mi guardò ed emise un rabbioso rantolio come un cane che difende l’osso. Gli orfanotrofi erano sovraffollati in misura tale che non furono più in grado di provvedere a tutti i bambini e allora questi furono quindi trasferiti in una città dei bambini, dove vivevano all’aperto, non ricevevano niente da mangiare e morivano di fame lontano dagli occhi della gente. Quella città era circondata da un muro perché la gente non potesse guardarvi e dentro si potevano però sentire terrificanti grida disumane. Un altro testimone narra: “ho visto una piattaforma dove erano ammucchiati dei bambini proprio come ho detto magri magri, lunghi lunghi, le faccine da uccelletti morti, il beccuccio appuntito fino a che erano riusciti a volare quegli uccellini, le testoline a ciondoloni appesantite. Io chiesi al vetturale e lui fece un gesto con la mano prima che io arrivi a destinazione si azzittiranno per sempre”.

Gli abitanti di Dnepr, Donec, Chernihiv, Odessa e Char’kov furono deportati in massa perché contravvenivano al divieto di commerciare qualsiasi cosa dall’elenco stilato il 15 dicembre 1932. Il tasso di mortalità fu così alto che i carri vennero adibiti specificatamente al trasporto quotidiano dei morti al cimitero e le fattorie rimaste vuote furono occupate dai russi e fu detto loro che c’era stata un’epidemia.

La testimonianza di un’attivista riporta: “Non dimenticherò mai il 1932: i contadini giacevano inermi nelle capanne con le membra gonfie. Ogni giorno venivano portati via nuovi cadaveri. Ma i segretari del partito di Zaporizia fecero un’orgia sfarzosa in mezzo a tutti questi cadaveri”. Un altro attivista ricorda: “Sentivo i bambini soffocare e tossire per le troppe urla, e vidi gli sguardi degli uomini impauriti, spenti dalla disperazione, che dicevano “prendete tutto”, ed io mi dicevo che dovevo resistere alla pietà. Questo è il modo in cui io e tutti quelli come me ragionavamo. Io stesso presi parte a tutto ciò: ho battuto le campagne ho cercato il grano nascosto percuotendo il terreno con una mazza di ferro per vedere se vi avevano seppellito il grano, ho svuotato le madie dei vecchi contadini, sordo alle grida dei bambini e ai lamenti delle donne. Ero convinto di star compiendo la grandiosa e necessaria trasformazione nelle campagne e che, in futuro, la gente sarebbe stata meglio, che i loro dolori e le loro sofferenze fossero il risultato della loro ignoranza o delle macchinazioni del nemico di classe; che coloro che mi avevano mandato e io stesso sapessimo meglio dei contadini come essi dovessero vivere cosa essi dovessero seminare e quando dovessero arare”.

Ma anche i comunisti migliori si abituarono presto: “A tutto mi stavo già abituando a questo clima di orrore. Stavo sviluppando una resistenza interna a quella realtà che soltanto ieri mi aveva lasciato senza forze. Era stato più semplice, sopportare la vergogna finchè potevo incolpare singole persone”. Del resto, Lenin aveva detto: “questa storia di nutrire chi sta morendo di fame e niente più che un’espressione di sdolcinato sentimentalismo tanto caratteristico della nostra intellighenzia” (Conquest, “Raccolto di Dolore”, Op.cit.).

A metà del 1933 fu dato l’ordine all’esercito di dare un po’ di cibo, ma ne mangiarono troppo e troppo in fretta, con esiti letali. Molti di loro non riuscivano a raggiungere la metà del campo e, incurabili, venivano messi cadaveri nelle cantine degli ospedali. Un’intera generazione di bambini delle aree rurali di tutta l’Ucraina fu annientata o segnata per sempre ed è evidente che tipo di eredità ha lasciato quell’evento per il futuro del paese. Le esperienze di chi è sopravvissuto hanno avuto delle conseguenze nei poveri ragazzi che avevano visto tante morti e tante sofferenze, al punto da pensare che tutti gli orrori che avevano visto costituissero un normale aspetto della vita. Trotzky disse che in nessun luogo la repressione, le epurazioni, l’assoggettamento hanno assunto proporzioni così micidiali come in Ucraina, nel tentativo di schiacciare la tenace lotta sotterranea del popolo ucraino per una maggiore libertà e indipendenza.

La parola “genocidio” nasce proprio in Ucraina, precisamente nella città di L’viv, e fu dovuta al giurista Raphael Lemkin, combinando il termine “genos” (etnia, nazione) e il suffisso latino “-cidio” (“uccisione”). La grande enciclopedia sovietica già conteneva un articolo su genocidio, che, però, veniva definito come un effetto dell’imperialismo decadente. L’Urss era uno dei Paesi vincitori e non avrebbe mai accettato che, nella Convenzione ONU per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio venissero inserite clausole che potevano evocare quella carestia (Applebaum 2017, pp. 435) e solo il 23/10/2008 il Parlamento europeo ha riconosciuto l’esistenza del genocidio ucraino, definendolo, appunto, Holodomor: spaventoso crimine contro il popolo ucraino e contro l’umanità.

Conquest nel suo reportage (op. cit.) scriveva: “Non vi fu bisogno di eccessive pressioni, perché l’Occidente, che soffriva della sindrome da ammirazione della “Russia”, mista a timore reverenziale per i presunti successi russi, confrontati con la debolezza occidentale, non parlasse dell’holodomor. Non erano solo i “veri credenti”, i socialisti puri e duri a voler negare l’evidenza. Gli stessi governi occidentali avevano interesse a non indagare troppo”.

Ancora una volta, questi racconti che tutti dimenticano non dovrebbero servire per odiare il popolo russo, ma perché noi europei possiamo renderci conto quale razza di scheletri stanno nell’armadio della storia ai confini dell’Europa. Forse occorre rendersi conto che le popolazioni russe hanno subito un esperimento di controllo sociale e di modifica dell’etica (il fine giustifica i mezzi) unico, che non hanno fatto i conti con la loro storia e che, proprio per questo, sono passati dallo zarismo, al regime sovietico alla liberazione dalle condizioni di quel regime pensando di trovare nell’occidente liberista la cuccagna, ma tutto questo senza la capacità di scoprire autonomamente un percorso, che, tra l’altro, gli permettesse di vedere il lato tragico di questa cuccagna.

Con il tempo e la perdita della memoria è riapparsa la nostalgia verso rappresentazioni cognitive di un passato esistito solo nelle narrazioni composte dal contemporaneo pifferaio del Cremlino: il passato ritorna sotto le sue mentite spoglie o forse era il passato che indossava mentite spoglie.

 

 

(23 maggio 2024)

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