di Vanni Sgaravatti, #gaiambiente
La tecnologia digitale è il fattore abilitante dell’economia immateriale e sono le caratteristiche di questa, ancor più che l’adozione degli strumenti tecnologici, che destrutturano le relazioni, fino a poco tempo fa fondate sul rapporto tra enti, materiali o animati e vitali che siano.
E questo, paradossalmente, mentre la stessa economia immateriale rende evidente ed emergente in certe narrazioni, la centralità delle stesse relazioni, in quanto elementi fondanti nella comprensione del mondo contemporaneo.
Perdere l’ancora alla materialità, elemento certo e stabile in quanto percepito direttamente dai nostri sensi naturali, fa irrompere nei nostri stessi processi cognitivi l’“incerto”, complicando la comprensione condivisa del mondo, perché richiede, per essere affrontata, di comprendere concetti controintuitivi e relative contraddizioni cognitive.
La comprensione delle relazioni non tanto come interconnessioni tra elementi, ma come elemento fondante della realtà è complessa, talvolta inafferrabile e per questo spesso angosciante, soprattutto per chi, cerca attraverso la conoscenza, un controllo e una diminuzione dell’incertezza.
Inoltre, le relazioni riguardano non solo le interconnessioni tra soggetti con natura differente, animati e non, più o meno coscienti, ma anche tra diversi livelli di realtà e di dimensione: il micro e il macro, e, ancora più complicato, tra noi in quanto osservatori del sistema di relazioni e noi stessi in quanto osservati all’interno di tale sistema.
Il rapporto tra il linguaggio razionale che utilizziamo per comprendere dimensioni e livelli di realtà diversi, da quello micro dei virus e della fisica quantistica a quello macro dei buchi neri, da quello dei movimenti collettivi colti dalle statistiche a quello dell’inconscio e delle relative ermeneutiche interpretative ed il linguaggio utilizzato nella dimensione del nostro vivere quotidiano, materiale e sensoriale richiede, per essere compreso, la capacità di accogliere l’incertezza e di utilizzare operativamente concetti come quello della probabilità.
Probabilità come misura e risultato di un intreccio, di correlazioni, di coincidenze, di caso e necessità, di ipotesi e deduzioni. Questo stride con un modo di pensare prodotto dall’evoluzione che trova nel rapporto lineare tra causa ed effetto, con cause derivanti da soggetti antropomorfi o comunque derivanti da agire intenzionali, il sistema cognitivo adattativo adeguato ad un mondo che, però, non esiste più o almeno non è più leggibile con quegli strumenti cognitivi.
Sembra che la conseguenza di questa contraddizione evidenzi un gap culturale che rende veramente difficile quell’informazione consapevole e condivisa da un maggior numero di persone, quale elemento per una democrazia che, per essere tale, richiederebbe anche una valutazione preventiva e partecipata degli impatti sociali economici dell’innovazione.
Valutazione necessaria per dare quell’orientamento etico alla stessa innovazione, che molti auspicherebbero e che è molto difficile da perseguire senza un’educazione specifica che superi quel rifiuto, talvolta aprioristico, di una razionalità insita nel processo scientifico.
Un processo di difficile comprensione da parte di chi si affida completamente all’intuito ed a bisogni facilmente manipolabili senza la guida e il filtro di un pensiero autocritico.
Inoltre, da questo stridore, da queste contraddizioni emergono sempre più i bias distorsivi dovuti alla velocità con cui occorre prendere decisioni, che, a loro volta, stimolerebbero proprio quell’intuito forgiato dall’evoluzione, in parte inadeguato alla complessità del mondo che abbiamo creato.
Ed allora emerge anche il tentativo di trovare altri linguaggi universali, come quelli del linguaggio macchina frutto di una visione del linguaggio logico matematico da assumere come linguaggio universale per poter superare la metafora distopica della torre di Babele. Tendenza che ha una lunga filosofica gestazione, da Cartesio a Leibniz, a Frege, Carnap, Turing, Von Neuman, dal turco meccanico, alle macchine Holleritz studiate da Ibm nel periodo nazista, nel tentativo di controllare, l’uomo-massa, il caos, la complessità.
Tendenza questa quasi inconscia più che risultato di una ricerca pianificata, consapevole e preventiva di vantaggi socioeconomici per pochi privilegiati derivanti dall’applicazioni di linguaggi logico-artificiali.
Macchine e algoritmi che trovano, però, terreno fertile nell’esigenza sociale e, quindi, umana, di diminuire il rumore, cioè la variabilità di giudizi e previsioni dipendenti da fattori istintivi che non controlliamo e che non hanno a che vedere con l’oggetto di previsione e valutazione. Come quelli che si ritrovano in giurisprudenza, dove una ricerca su 8 milioni di sentenze ha evidenziato pene che vanno dai 3 ai 17 anni per lo stesso reato nelle stesse condizioni o quelle nella medicina dove, in famosi test, circa il 40% degli stessi medici hanno cambiato significativamente la loro diagnosi di fronte agli stessi dati ed evidenze presentati successivamente in modo anonimo.
Ma la variabilità non controllata nelle valutazioni e previsioni e la fisiologica incertezza che ne consegue compie il suo percorso, iniziato quando ci si è accorti, qualche secolo fa, che tutto il sapere non era contenuto in “scrigni” che potevano essere aperti, cioè letti solo da specifiche persone, con ruoli definiti dalle organizzazioni religiose, ma che il dubbio e, quindi, la ricerca erano parte ontologica delle relazioni con il mondo.
Organizzazioni, che, indipendentemente dal compito spirituale, di relazione con il trascendente e dagli orientamenti ed insegnamenti teleologici, hanno svolto, nella storia, come è ben noto, ruoli di ordine sociale.
Naturalmente, questa scoperta e consapevolezza di ignoranza e di incertezza, che ha comportato un’ansia dovuta alla condizione di non disporre più di una bussola, ha dato luogo ad un’altra contraddizione nella visione dell’umano: da una parte la marginalizzazione dell’uomo, non più al centro dell’universo o non più creato in cima alla piramide delle forme di vita, dall’altra la centralizzazione dello stesso uomo che rimane solo di fronte alla complessità del reale.
Solitudine e vuoto talvolta colmati dal bisogno di affidarsi a meccanismi del sistema socioculturale, già antropologicamente presenti, ma esplosi e accelerati, quasi sacralizzati, quali quelli tipici derivanti dalla accumulazione e della crescita per la crescita del sistema capitalistico e di mercato, con relative procedure e narrazioni liberiste di giustificazione morale a supporto.
E si possono individuare narrazioni filosofiche, che rafforzano la legittimità, ovviamente non volutamente, di quella neoliberista e della conseguente esplosione delle tendenze alla crescita e disuguaglianza, (dall’avvio dell’era industriale e della prima globalizzazione con la scoperta del nuovo mondo, per intendersi), nella separazione tra mente e corpo, tra anima e materia, tra intuito e intelligenza computistica, con il conseguente affidamento alle macchine di quest’ultima, così che possano sostituire gli umani con le loro imperfezioni.
Compito che non viene affidato alle macchine dalla massa indistinta dell’umano, ma da una classe dirigente che, anche se non in grado di pianificare la distribuzione dei benefici derivanti da tali innovazioni, entra in un dialogo con le proprie creature artificiali per rafforzare i privilegi dei “tacchini”, quelli che non si mettono nel forno da soli.
Non si può, infatti, pensare che il sistema sociale economico e culturale presente non influisca nella direzione della tecnologia innovativa che esprime e che non nasce dal nulla: l’uomo è naturalmente artificiale e, tramite le relazioni di potere del sistema sociale ed economico vigente, utilizza tali caratteristiche per adeguare l’ambiente alle proprie condizioni di sviluppo.
Pensate e progettate per essere efficienti le macchine, però, non possono altro che adempiere il loro compito rendendo l’ambiente più a loro misura, che non a quella dell’uomo che ad esse si è affidato: ed ecco ancora un’ennesima contraddizione.
(4 dicembre 2021)
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