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La settimana di Jorge Alberto: fare “coming out”

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Closetdi Jorge Alberto Chavez Reyes

 

 

 

 

 

L’11 ottobre del 1988 si celebrò per la prima volta il “Coming Out Day”, la giornata del coming out, in onore della seconda marcia nazionale per i diritti di lesbiche e gay realizzata a Washington DC, capitale degli Stati Uniti. Leader della marcia era Jean O’Leary (1948-2005)  attivista lesbica, politica ed ex suora del Convento delle Sorelle dell’Umiltà di Maria, insieme ad altri attivisti ed altre attiviste.

Come sappiamo “fare coming out” (o smettere di nascondersi, insomma) è un’espressione che si usa per definire quella persona che decide di uscire allo scoperto e dichiarare pubblicamente il suo orientamento omosessuale (gay, lesbica, bisessuale che sia) o la sua identità di genere trans.

A pochi giorno dall’ultimo 11 ottobre, il momento è buono per riflettere su ciò che implica il “coming out”… Innanzitutto “venir fuori” significa che in qualche modo si è stati “dentro” qualcosa prima di uscirne. Cosicché quando è che in quel “dentro” ci siamo entrati?

 

Di solito succede in qualche momento della nostra infanzia, o nell’adolescenza, quando ci rendiamo conto o ci fanno accorgere del fatto che siamo in qualche modo differenti. Nel caso di lesbiche e gay, succede quando scopriamo che i nostri sentimenti e desideri erotici sono diretti verso persone del nostro stesso sesso e, quasi immediatamente, ci rendiamo conto che tale cosa è considerata “malvagia”, “peccaminosa”, “anormale” o tutte e tre le cose insieme e, sia che accettiamo la questione o no, avvertiamo il dovere o la necessità di nasconderci.

Ci nascondiamo quando prendiamo la decisione di, o accettiamo l’imposizione di, occultare o negare la nostra sessualità omosessuale. A partire da questo momento costruiamo un “dentro” fatto di bugie, timori, autorepressione e omofobia interiorizzata. E tanta sofferenza. Le bugie non le diciamo solo agli altre e alle altre, ma anche – e a volte soprattutto – a noi stessi per giustificare la nostra situazione. In molti casi, specialmente quando siamo diventati adulti ed abbiamo trovato la forza necessaria al “coming out” giustifichiamo il “dentro” con l’omofobia: non vogliamo essere considerati alla stregua degli altri “scandalosi” omosessuali, non vogliamo far soffrire i nostri genitori/amici/parenti senza renderci conto che stiamo rinuncianciando alla nostra felicità per… Paura ad essere liberi?

 
Poi arriva un momento nel quale ci rendiamo conto che stiamo asfissiando in quel “dentro”. Troppa energia tener chiuse porte e finestre e così, magari con l’aiuto di uno psicologo, o aprendo leggermente la porta per far entrare un amico/amica, riusciamo a pronunciare le maledette due parole “sono gay” oppure “sono lesbica”. Uff…!

La cosa più difficile però è parlare con la propria famiglia. Anche se non dovrebbe essere così, in generale abbiamo bisogno di un lungo periodo di preparazione per affrontare il discorso con genitori, fratelli e sorelle. Giustamente, da un lato, perché siamo consapevoli che le reazioni potrebbero anche essere violente, o semplicemente drammatiche (che è un’altra forma di violenza).

 
Ho la sensazione che oggi i genitori tendano a reagire meglio che venti o dieci anni fa, ma continuo a pensare che prima di parlarne con loro sia meglio essere sicuri che non si è malati, che non è una “fase”, che non c’è medico, psicologo o prete che possa “curarci” (dato che non ce n’è bisogno) e che non ci sono ragioni per vergognarci di ciò che siamo.

In generale credo che a renderci visibili scateniamo nelle nostre famiglie il timore di essere visibili a  loro volta. Ma come? Siamo diventati genitori di “omosessuali”? Non siamo più la famiglia modello? Nostro figlio ci fa vergognare di fronte a parenti, amici e società tutta? Ancora troppo spesso si pensano cose come questa, senza considerare alcune culture africane o asiatiche donde avvelenare il figlio omosessuale è “recuperare” l’onore familiare perduto.

 
Bisogna tenere presente problemi come questo quando ci apprestiamo ad intraprendere la lotta contro l’ignoranza e i pregiudizi. E’ evidente che più i nostri genitori sono ignoranti, o religiosi, o tutte e due le cose, più l’impresa si fa difficile. A volte allontanarsi dalla famiglia non può che far bene, in attesa di ricostruire il legame spezzato o incrinato dalla nostra “rivelazione”. Noi latini (Jorge Alberto Chavez Reyes è peruviano, ndt) fatichiamo molto a reggere il processo di allontanamento dalla famiglia, perché i nostri legami di sangue sono molto forti, ma credo che si tratti della via più sicura per tutti.

D’altro canto, e per fortuna succede sempre più spesso, accade che genitori, amici e parenti ci dicano che immaginavano fossimo lesbiche o gay e che per loro non cambia nulla.

 

Insomma, il coming out migliora le relazioni con l’ambiente circostante, i nostri amici e la nostra famiglia, perché stabilisce la verità e non fomenta più la menzogna.

Ne deriva che più avanziamo nel processo di rottura degli schemi ideoligici sessisti e delle pratiche maschiliste che fanno parte della nostra cultura e normalizziamo l’amore ed il desiderio omosessuale,  anche attraverso il matrimonio ugualitario, e più avanziamo nell’educazione al rispetto delle differenze, di tutte le differenze, meno avremo bisogno di coming out.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(15 ottobre 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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