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“Giustappunto!” di Vittorio Lussana: Sigonella 30 anni dopo

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Bettino Craxi Sigonelladi Vittorio Lussana   twitter@vittoriolussana

 

 

 

 

 

A trent’anni dalla notte di Sigonella, bisognerebbe riflettere a lungo sulla magnifica politica estera di Bettino Craxi. In un periodo in cui la Farnesina vivacchia tra una polemica e l’altra, occorre infatti una maggior consapevolezza su cosa significhi rappresentare l’Italia come Paese che vuol essere, all’interno dell’alleanza atlantica, una forza di mediazione politica, in particolar modo nel Mediterraneo. Il mondo del 1985 era diviso in blocchi contrapposti, con i missili atomici perennemente puntati su tutti noi. Oggi che quegli equilibri deliranti non esistono più, dovremmo comprendere quanto manchi, tra le forze politiche della sinistra internazionale, un’idea precisa, un progetto realmente alternativo di società: insomma, un mondo meglio di così. Ancora oggi, Sigonella è una base militare divisa esattamente a metà: da una parte ci sono i “nostri”; dall’altra, gli americani. L’aereo egiziano che nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985 atterrò nella parte italiana di quella base militare in base a un preciso accordo tra Bettino Craxi e Yasser Arafat, non solo avrebbe dovuto impedire agli uomini della Delta Force americana di intervenire, ma imponeva modalità logistiche assai chiare e ben definite sul da farsi. Un metodo che gli americani non cercarono nemmeno, poiché Washington si limitò a ordinarci la consegna, sic et simpliciter, dei terroristi palestinesi che avevano dirottato, nei giorni precedenti, la nave da crociera italiana “Achille Lauro”, tenendo il mondo intero, per lunghissimi giorni, con il fiato sospeso. La cosa era accaduta a bordo di un’imbarcazione battente bandiera italiana. E la trattativa per il rilascio degli ostaggi era avvenuta grazie alla mediazione cercata da Craxi con Arafat e Abu Abbas, che soltanto anni dopo si scoprì essere la vera “mente” dell’intera operazione. Eppure, gli americani e Ronald Reagan in particolare, ci chiedevano la consegna dei terroristi “senza troppe balle”, come se l’Italia fosse una sorta di provincia mediterranea del loro impero. Son sempre stati bravi gli americani a far la voce grossa con i Paesi più piccoli, assai meno ricchi di loro. Ma quella volta essi non avevano fatti i conti con un leader come Bettino Craxi, che in quell’occasione dimostrò non soltanto di non lasciarsi impressionare dalle telefonate imperiose e dai toni minacciosi, ma che l’Italia era uno Stato sovrano animato da un sentimento di riscatto rispetto alla condizione di disonore verso cui era l’avevano condotta il fascismo e le megalomanìe di Mussolini. Anche sotto il profilo del diritto internazionale, la posizione del Governo italiano era ineccepibile: a) la nave sequestrata era nostra, un “pezzettino” di Italia che “gironzolava” nel Mediterraneo stracolma di turisti in crociera; b) la trattativa per il loro rilascio era stata condotta dai nostri servizi e da Palazzo Chigi; c) l’areo che dal Cairo portò i terroristi alla base di Sigonella era previsto che atterrasse, per accordi espliciti, di cui gli americani stessi erano stati messi al corrente, nel lato italiano della base aerea siciliana. E allora? Cosa diamine volevano dimostrare gli americani? Per una volta, l’Italia e un suo esponente politico di spessore riuscirono a dimostrare di poter gestire una crisi delicata e rischiosa. Il pregiudizio americano nei riguardi del nostro Paese, considerato alla stregua di una “Florida del Mediterraneo” dedita soprattutto al turismo balnerare, era evidente. Invece, gli Stati Uniti dovettero darsi una calmata: finalmente, qualcuno era riuscito a far comprendere loro che non eravamo totalmente proni alle volontà altrui, pur dimostrando nei loro confronti un atteggiamento leale e riconoscente. L’alleanza con gli americani e la nostra stessa appartenenza all’alleanza atlantica, un trattato “difensivo” e non “offensivo”, come tentò di ricordarci molti anni dopo il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga allorquando la Nato decise, nel 2003, di invadere l’Iraq, sin dai tempi di Yalta rappresentava l’architrave portante della nostra politica estera. Una coordinata di politica internazionale che i democristiani, per lunghissimi decenni, avevano interpretato – con la sola eccezione di Enrico Mattei e Aldo Moro – come una comoda posizione di allineamento diplomatico subalterno: una sorta di delega in bianco concessa agli americani in quanto superpotenza militare. La nostra condizione di Paese uscito sconfitto dal secondo conflitto mondiale giustificava molto questa pigra sudditanza. E, in fondo, ci liberava da molti problemi, permettendoci di concentrarci sulle nostre questioni interne di giovane e ancora fragile democrazia. Nella notte di Sigonella, tutto questo finì: l’Italia voleva far parte a pieno titolo all’interno del novero delle potenze occidentali, con dignità ed effettiva responsabilità. Craxi riuscì a dimostrare che non volevamo più essere considerati un popolo inaffidabile, incoerente e traditore come ci aveva “marchiato”, forse per sempre, il fascismo. Una lezione, quella “craxiana”, che in molti, a sinistra – ma non solo a sinistra – dovrebbero ricordare con un grado assai maggiore di lealtà politica e onestà intellettuale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(9 ottobre 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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