di Vanni Sgaravatti
Le restrizioni negli accordi con i paesi in via di sviluppo sono state giustificate con le esternalità negative sul resto del mondo che avrebbe comportato il non imporre vincoli a quei paesi.
Ma queste esternalità, rischi di inadempienze finanziarie, inquinamenti, erano piccole rispetto alle grandi esternalità delle potenze neocoloniali. E la capacità di far rispettare i limiti presenti negli accordi è sempre spropositata a favore dei paesi ricchi. Ma per capire i limiti di questo “aiutiamoli a casa loro”, occorre studiare i dettagli, come funzionano le cose, come avvengono davvero.
Quindi, quando gli economisti conservatori promuovono queste giustificazioni ai contratti internazionali capestro e quelli di sinistra si accodano dicendo che questo è il mondo e non si può cambiare con la bacchetta magica, contano sul consenso di persone che “non studiano” (come purtroppo diceva il giovane Hitler, studiando la propaganda violenta dei socialisti, non sono i discorsi estetizzanti degli intellettuali che muovono le coscienze).
Studiano, naturalmente, i dissidenti intellettuali che essendo etichettati in questa categoria sono facilmente giudicabili come di parte.
Ma viene da chiedersi: “Chi detiene il potere tenta di assicurarsi che il governo usi il proprio potere per garantire gli interessi delle élite?”. Ovviamente sì. Ma come si fa a capirlo? Si potrebbe dire è sempre stato così e che è talmente plausibile da essere per forza vero?
Ma oggi la retorica è diversa, tutti parlano (e non solo pensano, visto anche il re diceva di fare il bene dei sudditi) di fare il bene del popolo (italiani, americani, ecc.) e nei talk show, per farsi belli, dicono: “la gente vuole sapere delle bollette da pagare non di queste discussioni …” e, quindi, val la pena, di ripercorrere in che modo i contratti, sia internazionali tra Stati che tra persone, sono vincolanti a favore dei potenti.
Ridurre le opzioni, per cui non rimane altro che un’unica opzione come quella migliore anche se penalizzante è un modo di preparare il terreno ad un accordo, volontario, ma iniquo.
A quel punto, chiunque facesse diversamente risulterebbe, un sognatore antistorico, che guarda i suoi interessi di parte, cioè la sua ideologia. Cambiare le opzioni, cioè il range di possibilità, non è realistico, si dice.
Facciamo l’esempio di ciò che regola i rapporti tra persone, in particolare, nel campo dell’assistenza sociosanitaria.
L’assistente sociosanitario parla del grande stress che ricade, in primis, sulle sue spalle, quando deve operare delle scelte tenendo conto di regole e risorse dettate da politiche del governo, cioè da elementi che stanno sopra la sua testa, per stabilire chi favorire e chi discriminare.
Mentre, nel caso di accordi transnazionali, il governo direbbe che ha dovuto optare per quello che le condizioni di forza internazionali gli permettono, che questo è il mondo e altrimenti si verrebbe tagliati fuori.
L’assistente sociale, in quanto cittadino, potrebbe, a giusta ragione, accusare il governo di giustificare le proprie azioni non corrette, immorali, oppure semplicemente non efficaci, giustificandole sempre con ragioni di forza maggiore.
Ma, a dire il vero, lui stesso, nel suo specifico, si trova ad applicare lo stesso tipo di ragionamento.
Come uscire da queste trappole cognitive, autogiustificanti, la cui efficacia nasce proprio dal fatto che le ragioni addotte per giustificare il proprio comportamento non sono per nulla campate per aria, anzi sono ragionevoli?
Almeno, a livello di ragionamento, propongo di aver chiaro chi è l’oggetto del discorso: la singola persona con il singolo problema da risolvere in un tempo specifico, che è un ambito diverso dalla categorizzazione a cui appartiene la singola persona per il tipo di problema di cui si sta parlando?
Quando si categorizza, ci si sposta, a quel punto, su un piano sociale e, quindi, inevitabilmente politico, magari inconsciamente, alla ricerca di una giustificazione morale del proprio comportamento individuale.
Una ricerca motivata dalla antropologica necessità di trovare una propria coerenza.
Facciamo un altro esempio. In guerra combatto il soggetto artificiale, stato o esercito nemico, combatto il soggetto specifico quando assume un ruolo e quindi diventa artificiale, cioè colui che vuole ammazzare me, oppure colui che in quel momento è il simbolo della rabbia che mi ha provocato (istinto di vendetta). Non combatto l’umano che è racchiuso in quel “soggetto”.
L’umano può venire fuori in ogni momento, ma se non lo riesco a far venire fuori nella relazione con me è perché ancora una volta lo classifico, lo discrimino, in quanto appartenente ad una categoria.
Questa tendenza alla categorizzazione è, appunto, una tendenza naturale e antropologica, su cui la razionalità deve operare per contenerla e non perché (homo omini lupus) siamo geneticamente cattivi, ma perchè da quando l’umano ha una consapevolezza di sé e da quanto costruisce una realtà artificiale fatta di segni e di simboli, siamo diventati animali che, talvolta, uccidiamo persone in quanto immaginativamente rielaborate in avatar simbolici.
Occorre, però, avere consapevolezza profonda della discontinuità altrettanto profonda tra relazione singolare e relazioni collettive.
La prima, quella singolare, inevitabilmente adotta nei comportamenti e scelte all’interno di relazioni individuali, valori culturali, politici, ecc., che, perso si adattano (o così dovrebbe essere) alla realtà dell’altro, per come ci appare.
Nell’esempio dell’assistente sociale, si cerca soluzioni, talvolta aggirando o reinterpretando le regole burocratiche, a tale scopo.
Nel secondo ambito, quello della relazione collettiva, il sentimento emergente è influenzato dalla classificazione più o meno inconscia, dei requisiti di appartenenza ad una categoria sociale e quindi influenzata dalle caratteristiche politico culturali e storiche su cui tutti noi reciprocamente ci condizioniamo.
E quindi, prima con l’immaginazione, poi con la comprensione e poi ancora con i comportamenti ed, infine, con le scelte, magari in ambiti differenti da quelli in cui operiamo con un ruolo (l’”assistente sociale”), cioè, nel nostro “agire politico quotidiano” possiamo sempre andare oltre a vincoli e requisiti, per costruire un mondo migliore.
Una costruzione che l’umano ha sempre fatto nella storia, con risultati, però, che non si dispiegano nei tempi che il singolo richiederebbe per vedere i risultati delle proprie idee nella sua relazione con il sociale.
Il mondo cambierà senz’altro, noi possiamo contribuire a cambiarlo, ma non si sa quando, come e se, ma il provarci dovrebbe fornire comunque il senso della nostra relazione con il sociale.
(21 aprile 2025)
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