di E.T.
Senza entrare nel dettaglio di una vicenda conosciuta e fin troppo scritta, e scritta fin troppo male, vorrei soffermarmi sulla scoperta di Selvaggia Lucarelli come giornalista fin troppo aggressiva portatrice di ogni male, così viene descritta, e Internet crogiuolo di morte, orrore, disperazioni, sgomento e vergogne. Nulla si genera da sé. Non è una notizia, e non pretendo di crearla.
Sono sui sociali fin dagli albori, 2008, e ho sempre osservato una regola ferrea: usare i social e non farmi usare quindi ho cercato di usare alcuni piccoli trucchi. Evito la geolocalizzazione, dico a un computer che vivo a Genova, allo smartphone che vivo a Roma, al tablet che vivo a Torino e al laptop che sto a Parma. Serve. Nonostante l’indirizzo IP. Non ho mai usato robe tipo le piattaforme dove scrivi di te tutto il bene possibile possibilmente sotto falso nome, non mi recensisco da solo, non parlo male degli altri, non mi sono autocelebrato su Wikipedia perché disgraziatamente ci si informano (per la scuola, ¡madre de dios!) anche i miei nipoti e ho troppo rispetto di me stesso per essere patetico, e quando arrivano commenti sulle manifestazioni pubbliche di cui mi occupo osservo una semplice regola: via i commenti troppo entusiasti, via i commenti troppo negativi. Risultato: non commentano più. Si può e fa bene alla vita quotidiana.
Sto dunque gentilmente svelando il segreto di Pulcinella: se si contesta Selvaggia Lucarelli per quella che si definisce la sua cattiveria (non la apprezzo, non la leggo se non saltuariamente e solo per sapere quel che scrive e non la conosco, quindi non la difendo) come si può definire chi le scrive che la sgozzerà chiamandola merda, troia e puttana? Un santo?
E coloro che sono pronti per convenienza politica a saltare sul carro della condanna a Internet sono forse lontani parenti di quelli che avevano creato macchine del fango conosciute come La Bestia – pessima fine anche per quell’inventore, perché la vita ti presenta il conto persino se sei vivo, guarda un po’.
Eccoci dunque al tutti santi e buoni e beati ad incolpare i giornalisti e Internet, come se la cattiveria con cui ci si esprime sul web sia opera esclusiva del giornalismo (e posso dire che non è così, anzi spesso ciò che si pubblica perché si fa quel mestiere nemmeno si commenta, si chiama deontologia) e come se il mare di merda che galleggia sulla superficie e nel profondo del web si fosse creato da solo.
Si giudica dunque uno strumento trasformato in arma d’offesa dal pulpito di chi si scrive la recensione da solo; apre un negozio e lo commenta e racconta come meraviglioso! aprendosi un account falso; offende o minaccia (quando non tutt’e due) una donna da un account fittizio creato all’internet point pubblico sotto casa così da non venire individuato; offende gratuitamente con una virulenza che lascia sconcertati chi non la pensa come lui. Si sorvola per compassione su chi legge solo un titolo e commenta senza averlo capito in un’italiano da prima elementare, pretendendo ascolto. Se siamo diventati quella roba lì non è colpa di internet perché le tastiere – udite! udite! – non scrivono da sole.
In questo paese va così: certi governi vanno al potere, ma nessuno li ha votati. Certi delinquenti prosperano, ma nessuno li vede. Si ammazzano due donne al giorno, ma è colpa loro. Si crea una società perennemente in conflitto, ma è colpa degli altri. Oggi siamo alla colpevolizzazione di giornalisti e di Internet. Non sarà mai troppo tardi decidere di assumersi, ogni tanto, una responsabilità. Magari serve.
O forse è meglio sentirsi parte dell’ennesimo esercito di giustizieri e paladini della verità. Finché dura. Domani si entrerà a far parte di un altro esercito fin che morte non ci separi. Una vita esaltante, diciamo.
(17 gennaio 2024)
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