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Come rendere presentabile una destra impresentabile

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di Vittorio Lussana

Inizialmente, questa settimana volevo scrivere qualcosa sulla vicenda che ha investito Vittorio Sgarbi. Ma poi ho deciso di attendere anch’io le valutazioni dell’Antitrust in merito ai suoi rimborsi spesa. Ho seguito la sua autodifesa da Formigli a Piazzapulita, su La7, parzialmente convincente: tutta una serie incarichi che Vittorio Sgarbi, in effetti, ha sempre avuto, sono a titolo gratuito; altri, invece, sono a pagamento, ma egli li ha sempre svolti molto bene, preparandosi e documentandosi.

Probabilmente, c’è un problema di principio con la ratio di una norma: la legge n. 215 del 2004, che tenta di regolare i conflitti d’interesse. Ma egli è sincero, quando afferma che i suoi conti con l’Agenzia delle Entrate sono in fase di saldo e stralcio. E anche quando confessa che passa la vita a pagare conti.

Io credo che il vero problema di Vittorio Sgarbi sia, oggi, la mancanza di sua madre, la famosa Rina Cavallini Sgarbi. Una signora in gambissima, che gestiva le sue entrate di eccellente critico d’arte e regolava i conti con tutti: collaboratori, organizzatori di eventi e addetti stampa. E il fatto che egli svolga tante attività deriva da un suo modo, un po’ nevrotico, di affrontare la vita: forse è giunto anche per lui il momento di rallentare. Insomma, è vero che Vittorio Sgarbi sia solito cercare soldi. Ma lo fa per sostenere tutto il suo circuito di amici, collaboratori e cortigiani. Sbaglierò, ma resto convinto che si tratti di un problema di miglior selezione di situazioni e persone che ruotano attorno a lui. Anche perché, quando la pacchia finisce, per un motivo qualsiasi, spariscono tutti: questa caratteristica degli italiani la conosciamo bene anche da queste parti.

Sia come sia, in attesa di saperne di più preferisco occuparmi di cose più generali. Come la tendenza all’opportunismo della destra al potere, in totale contraddizione con la sua matrice filosofica gentiliana. Proprio l’opportunismo, infatti, fu il vero motivo che indusse Ciano e Mussolini a seguire Hitler nella seconda guerra mondiale: “Per fare la nostra parte di bottino”, scrisse nel suoi diari l’allora ministro degli Esteri, nonché genero del Duce. Ma proprio l’opportunismo fu il punto nodale che condusse alla rottura, intellettuale e personale, tra Giovanni Gentile e Benedetto Croce. Il quale, con le sue quattro forme di cultura superiori, abbinabili a piacimento, non si accorse di giustificare anche una potenziale libertà individuale totalmente sganciata dall’interesse collettivo o nazionale.

In sostanza, nella nota diatriba filosofica, in realtà aveva ragione Gentile nel voler includere ogni possibile doppiezza all’interno di una coerenza basata sullo Stato etico, senza sfociare nel totalitarismo. Togliatti lo comprese perfettamente. E infatti il suo Pci, nel dopoguerra, fu più gentiliano che crociano, per non dover rinunciare ai concetti di responsabilità e serietà. Persino Delio Cantimori, uno storico di formazione gentiliana funambolicamente accampatosi su posizioni di frontiera, scelse in seguito di aderire al Pci “per questioni di serietà e di coerenza”. E’ una tematica ancora oggi un po’ negletta, che in genere gli storici definiscono: “Gli intellettuali sotto due bandiere”.

Invece, intorno al fascismo degli anni ’30 del secolo scorso, ovvero quello della fase caricaturale, ci sarebbe tanto da dire. A cominciare dal fatto che Mussolini non volle mai dar retta a Gentile, abbandonandolo sulle alte vette della cultura e preferendo governare il Paese attraverso un corporativismo giuridico vagamente paternalista, totalmente basato sulla gerarchia come ai tempi della prima guerra mondiale. Fu questo l’errore più grave, perché nel distorcere lo Statuto albertino, il fascismo finì col distaccarsi totalmente dalla realtà, senza riuscire a scorgere il burrone verso il quale l’Italia si stava avviando. Una sorta di avvitamento, che s’illuse di poter trasformare il Paese in una potenza militare: un ruolo che gli italiani non sono mai stati in grado di interpretare.

Insomma, l’idea di destra che continua a manifestarsi ancora oggi, sia in Fratelli d’Italia, sia nell’intero circuito della militanza, è discendente da quella mussoliniana: inutilmente assertiva e superficiale, che espone alle contraddizioni più stridenti, poiché si presenta priva di una spina dorsale culturale. Qui non si chiede un banale e quasi mortificante bagno di umiltà: nessuno intende mortificare nessuno. Ma se a sinistra si è sinceramente elaborata, in questi anni, una buona autocritica circa la lucidità dell’italo-marxismo di azzeccare le diagnosi, ma una limitata capacità nel fornire terapie e ricette, allo stesso modo la destra dovrebbe abbandonare il terreno dell’opportunismo e del consenso a tutti i costi, per tornare a un’etica della convinzione meno legata agli obiettivi immediati, alle apparenze fumose, ai vuoti atteggiamenti. Le destre devono diffidare della cultura media del pulpito televisivo e della propaganda perenne, che è sempre corruttrice del pensiero pensante.

La percezione conta in politica: questo è innegabile. Ma è la dose di propagandismo tribunizio a risultare ancora esagerata, rispetto alle politiche che poi si è costretti a praticare, trasformando il pensiero di ognuno in demagogia. E’ un richiamo alla lungimiranza il nostro, perché non è vero che il pensiero gentiliano sia una sorta di gabbia hegeliana. Le prigioni interiori sono quelle che la gente di destra si costruisce da sola, in quanto forma di chiusura ideologica puramente difensiva. E’ provincialismo puro e semplice il suo, anche meno attuale e moderno di quello della Lega.

Un vero pensiero pensante di destra non si occupa unicamente di se stesso e rifugge slogan e astrazioni proprio per essere “seri e realisti”, come ha dichiarato il premier Meloni in conferenza stampa, presentando la manovra finanziaria per il 2024. La legge di bilancio è alquanto tirchia in sé e per sé: non stiamo discutendo di questo. Ma le due categorie filosofiche appiccicate dalla presidente del Consiglio all’impianto complessvo della normativa sono interessanti, perché dimostrano che la bussola della destra, al di là delle impressioni errate che essi continuano a spacciare nella dialettica quotidiana, non è poi così distante rispetto al binario morto in cui adorano impantanarsi.

Le destre italiane potrebbero modernizzarsi se solo capissero l’importanza dell’apertura al dialogo, al confronto, persino allo scambio. In forme moderate e caute, ma non totalmente diffidenti, selezionando certamente i propri interlocutori con attenzione, ma senza cedere al ripiegamento, al fare quadrato come nelle battaglie della fine del XVII secolo. In tempi di zona globale risulta ormai antiquato chiudersi a riccio: prima o poi, un goal lo si prende di sicuro. E non c’è tutta questa differenza, tra la sconfitta di misura e quella per cinque a zero.

Si tratta, insomma, di un passaggio tanto necessario, quanto fondamentale, al fine di abbandonare le vecchie zattere ideologiche e i retaggi di chiusura quasi ancestrale; per non essere deboli con i forti e forti con i deboli; per far evolvere un intero pezzo di popolo italiano, abituandolo a praticare un pensiero più lungimirante e indirizzarlo a raggiungere anche gli obiettivi di lunga lena; per individuare nuovi metodi di gestione della cosa pubblica che porterebbero, come conseguenza, a una maggior stabilità dei governi ,secondo una logica di alternanza in cui le destre non smontino, ogni volta, ciò che di buono hanno fatto le sinistre e viceversa; per non doverci rassegnare a vivere in un’Italia a due facce, sempre e comunque.

La specularità tra destra e sinistra, che a prima vista ci appare una delle nostre principali contraddizioni nazionali, potrebbe invece indicarci una via d’uscita sorprendente, accompagnandoci verso un cammino di crescita.

Consapevoli, finalmente, verso dove vogliamo andare. Tutti quanti.

 

(27 ottobre 2023)

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