di Vanni Sgaravatti
La dimensione virtuale della vita e delle relazioni è immaginata spesso come un fattore fondamentale che ha modellato e modella la nostra società, le cui conseguenze poi non ci piacciono, per lo spaesamento e il disagio che queste comportano.
Quando si pensa alla costruzione della società del futuro attraverso la digitalizzazione delle relazioni, l’immagine un po’ inquietante che abbiamo in testa è quella dei ragazzi attaccati per ore al proprio pc nella loro cameretta. Meno evidente, ma sempre più pervasiva è, invece, la visione della vita digitale, vista attraverso le condizioni dei lavoratori, giovani o meno, che viaggiano nei social e nel mondo virtuale, durante il lavoro. Aspetto che, fino a poco tempo fa, veniva considerato come una condizione che caratterizzava in modo marginale l’innovazione del mondo digitale e continuava ad essere classificato come un aspetto tipico del fannullone che ruba il tempo già affittato al datore di lavoro anche se, talvolta, richiesto e utilizzato indipendentemente dall’utilità reale delle mansioni affidate, ma solo per dimostrare l’esistenza di una struttura gerarchica, in cui il “superiore” può godere della proprietà del tempo dell’”inferiore”.
Molti lavori “senza senso” implicano strategie e ricerche personali per indirizzare il tempo di lavoro non utilizzato per svolgere le mansioni formalmente assegnate, verso qualcosa di più inerente ad i propri desideri e attitudini. Questi lavori sono in continuo aumento, con l’avanzare di tecnologie e mondi digitali e comportano finzioni, recite implicite non riconosciute e relativi allentamenti nella solidarietà con i colleghi.
Non molti riescono nel compito di compensare l’inutilità del lavoro con attività che sviluppano la propria creatività e personalità, anche se non comprese nel contratto di lavoro. Quelli che ci riescono le vivono come un ambito sociale in cui i loro talenti e propensioni sono separate dalla transazione di base, quella in cui sei pagato e sopravvivi all’interno di una comunità per l’utilità del tuo contributo alla stessa. I molti che, invece, non riescono, spesso passano il tempo facendosi trascinare passivamente dal mondo dei social, vivendo così una propria società virtuale.
Per entrambe le tipologie, comunque, la dimensione reale, intendendo con questo termine una percezione relativamente condivisa delle caratteristiche del mondo esterno a noi, diventa sempre meno comune. I parametri con cui si definiva ciò che era reale da ciò che non lo era, diventano altrettanto soggettivi, definiscono i tanti mondi diversi vissuti e troppo differenti gli uni dagli altri.
I gruppi che risultano omogenei rispetto alle categorie sociali di antica classificazione (età, scolarizzazione, sesso, livello di reddito), sono oggi profondamente diversi nella loro percezione del mondo esterno. Mentre sono identificati e internamente resi omogenei, tramite i loto avatar di riferimento, costruiti dagli algoritmi sulla base dei dati relativi ai comportamenti di acquisto. L’etica e le istituzioni che regolano e orientano il valore e il significato delle relazioni umane non stanno dietro alla velocità delle trasformazioni di questo nuova forma di capitalismo e che richiedere nuove regole perché continui ad avere il centro l’uomo e i suoi valori. Le nuove modalità di accumulazione di capitale sono quelle in cui gli utenti delle piattaforme digitali, non sono i clienti dei servizi che attraversano il nostro mondo, ma sono i fornitori della risorsa primaria: i dati sui comportamenti di acquisto mentre il prodotto delle nuove imprese dell’informazione sono le previsioni sulla domanda di beni e servizi, che sono sempre più precise, fino a raggiungere la certezza, determinata dal fatto i bisogni sono sempre più indotti dall’offerta. Molto più velocemente di prima. I clienti diventano, quindi, gli inserzionisti che pagano chi controlla il flusso della domanda.
Non si può non pensare che questo contesto non determini le condizioni di disagio, non solo di persone che perdono il lavoro, perché emarginati dalle nuove occupazioni digitali, ma anche quelli che lavorano, e girovagano alla ricerca di mansioni che abbiano un senso, determinando un clima di sfiducia sociale e una accettazione della propria passività.
L’arte di scansare la fatica di lavorare, come veniva talvolta definita, richiede alti livelli di maestria ed è persino celebrata in certe tradizioni della classe operaia, ma per metterla in pratica occorre qualcosa di reale a cui sottrarsi.
In un vero lavoro senza senso, come sostiene David Graeber in “Bull shit Jobs”, è del tutto incomprensibile che cosa si dovrebbe fare in realtà, a chi si possono fare richieste e quali richieste si possono fare, fino a che punto e in base a quali criteri si è tenuti a fingere di lavorare e quale genere di cose è permesso o no fare in alternativa. È una condizione avvilente. Le ripercussioni sulla salute e sull’autostima sono spesso devastanti. Creatività e immaginazione si sbriciolano e compaiono di frequente dinamiche sadomasochistiche di potere.
Questa di definisce violenza spirituale ed ha inciso sulla nostra cultura, sulle nostre mentalità e soprattutto sulla nostra gioventù. I giovani europei e nordamericani si formano in scuole e università dove, anche nelle discipline teoricamente con un’utilità sociale di più diretta comprensione, la formazione è finalizzata a svolgere mansioni, i cui contenuti immaginati non sono quelli che realmente si svolgono nel lavoro vero.
I giovani che fanno i primi passi nel mondo del lavoro vengono preparati psicologicamente ad avere occupazioni senza senso, addestrati a simulare di lavorare e spinti con diversi mezzi a fare lavori che praticamente nessuno considera sul serio funzionali ad uno scopo sensato.
E ai giovani non viene neppure pienamente riconosciuto il diritto morale di lamentarsi, dal momento che vengono continuamente riproposte visioni e informazioni su persone che lottano per la sopravvivenza, sia che siano persone che scappano da situazioni di miseria e povertà, ma che proprio per questo, se sopravvissuti, sono molto più attrezzati di loro, sia che siano gli stessi giovani ancora alla ricerca di un lavoro necessario all’autonomia economica.
I giovani (e anche i meno giovani) alle prese con lavori senza senso, subiscono una specie di ramanzina, più o meno esplicitata, più o meno inconscia, sul fatto che in fondo non possono permettersi di avere gli stessi diritti (“dalla culla alla tomba”) di cui hanno goduto i loro genitori, perché c’è sempre qualcuno che sta peggio di loro. E per questo, non possono permettersi di lamentarsi e neppure di essere tristi.
(2 novembre 2022)
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