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Una politica regolarmente in ritardo e una società che corre a 200 all’ora #giustappunto

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di Vittorio Lussana

Nel dibattito apertosi all’interno del Partito Democratico sarebbe il caso di convergere soprattutto sui contenuti. E, quando si parla di contenuti, diventa impossibile non affrontare la questione-lavoro, poiché ci troviamo di fronte a un welfare destinato a cambiare, per svariati motivi. A cominciare da quello più generale: siamo all’interno di un processo di sviluppo tecnologico, che tende a cannibalizzare molte professioni, come già accaduto, per esempio, con fotografi e grafici. Moltissimi manifesti chiudono con il punto alla fine dello slogan, che in termini accademici è considerato un errore. Ma il segnale è molto chiaro: pur di non appaltare il lavoro a società esterne di comunicazione integrata, molti Partiti producono manifesti e altri materiali al proprio interno, inconsapevoli di esporsi a brutte figure.

A furia di fare poco o nulla, i nostri Partiti politici – tutti quanti e non solo il Pd – non sono riusciti a sistemare chi aveva svolto ottimamente la propria fase di addestramento giovanile, ottenendo dei risultati. E tutti quanti si sono visti costretti a inventarsi il lavoro sulla rete internet o con le community. Persino la Ferragni è un fenomeno sorto dall’incapacità di selezionare i giovani, dato che non si chiedeva di sistemarli tutti, bensì di valutarli, soppesarli e formarli. E si è finito con l’ottenere il risultato esattamente opposto: chi era raccomandato, seppur nella propria nicchietta, da qualche parte è rimasto; quelli, invece, che avevano dimostrato qualcosa anche di importante, sono stati considerati “persone di talento…” e, in quanto tali, hanno dovuto cavarsela da soli: siamo di fronte all’obiettivo esattamente opposto rispetto a quello di una sana meritocrazia.

Sui giovani, la politica ha sbagliato tutto. E si continua a sbagliare, facendo barriera, anziché guardare avanti e ricercare nuovi mercati di sbocco. Un classico esempio è ciò che mi capita personalmente quando mi ritrovo in una trattativa qualsiasi per lanciare un nuovo progetto editoriale, in cui le mie proposte di un lavoro in team’ o di squadra, viene rigettata regolarmente da almeno 10 anni a questa parte, con la frase: “Noi vogliamo te, non la tua squadra…”. Una frase che mi sono sentito ripetere varie volte e da più persone, spesso lontanissime tra loro. Perché qui da noi nulla cambia, in termini di mentalità: siamo ancora fermi alla famosa discussione tra Nanni Moretti e Mario Monicelli, in cui il primo accusava, giustamente, il secondo di non voler lasciare eredi. Ed è così ancora oggi: di formare persone che potrebbero dire la loro, un domani, proprio non se ne parla. Oltre a ciò, vi è stato l’avvento dei social network, che hanno imposto l’ubbia dell’ignoranza che sale al potere. Aveva ragione Umberto Eco: quella dei social è la degenerazione finale, che ha fotografato definitivamente una situazione socialmente stagnante. Ecco per quale motivo uno scrittore coraggioso come Roberto Saviano, che scava nelle cose come pochi colleghi fanno – altro caso tipico del casino combinato da una classe politica ancora post ideologica – il quale finisce col subire autentiche campagne d’odio perché, da più di un decennio, denuncia la fusione tra voto mafioso e voto demagogico alla base dell’eterno successo delle destre in Italia.

Insomma, oltre a tutto il resto, che siamo anche un popolo di mafiosi non si può dire. E non si può nemmeno investire sul territorio, sul patrimonio storico-culturale, su quello architettonico, sull’arte, sulla necessità di culture di accompagnamento dello sviluppo tecnologico, che appiattisce tutti quanti attorno al positivismo modernista delle conoscenze nozionistiche e del giustizialismo dei social, che fanno il tifo anziché scegliere, di volta in volta, la coalizione politica meglio attrezzata per affrontare una nuova fase. Non si può fare niente, in un Paese così rinchiuso nella mera conservazione.

Non va mai bene niente, in Italia: bisogna andarsene, punto e basta. E ciò è la conseguenza di un mercato del lavoro precarizzato, che prima mastica le persone e poi le sputa, poiché non servono più. Quindi, ci si rivolge alla rete senza alcuna coordinata deontologica o professionale, facendo correre notizie non verificate, in cui si denunciano complotti infiniti, tipo quelli sui vaccini. Una polemica che ha segnalato e segnala ancora adesso un enorme problema di scarsa formazione tecnica, perché quando un complotto viene scoperto, un determinato fenomeno distorsivo finisce, poiché sgominato. Invece, qui da noi i complotti non finiscono mai, perché servono a riempire le pagine di gente che si è gettata nella mischia per disperazione. E, proprio per questo motivo, non si può neanche dir loro più di tanto.

Siamo un Paese costretto a dar ragione persino ai produttori di fake news, perché questi ultimi, per lo meno, la fantasia per inventarsi una cazzata al giorno ce la mettono, mentre i nostri politici nemmeno questo sforzo fanno, segnalando solamente una cosa: la politica non è più la cittadella avanzata della società e si ritrova davanti a un mondo che, ormai, corre a 200 chilomentri all’ora. E non c’è più niente da fare.

 

(7 ottobre 2022)

©gaiaitalia.com 2022 – diritti riservati, riproduzione vietata

 

 




 

 

 

 

 

 

 

 

 


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