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Siamo filosofi, politici o guidatori ciechi di camion? #gaiambiente

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di Vanni Sgaravatti

Ho sempre sostenuto che chi sta sul camion, inteso metaforicamente come “sta sul pezzo” è una persona che fa, ma chi dopo essere sceso dal camion, ne canta le lodi di quel che farebbe una volta sceso dal camion, sta in fondo anche lui facendo filosofia. Ed è meglio che sia così, altrimenti che differenza c’è tra il camionista e il camion, tra lo sfalciatore e il tosaerba? Tra il filosofo e il politico? Tutti sarebbero solo strumenti.

Noi però siamo coscienti di quello che facciamo, possiamo farne parola e trovare la narrazione giusta per cantare le lodi dell’uomo del fare, trattorista o falciatore che sia.

Si può sostenere che certa filosofia è diversa da quella che sostiene l’importanza dello sfalcio e della concretezza del fare. Quel certo filosofare a cui si pensa è difficile per linguaggio e livello di astrazione. Concordo. Penso che si possa rendere, con il giusto impegno, il linguaggio meno difficile in tanta filosofia “astrusa”, ma sul livello di astrazione occorre il giusto equilibrio. E mi spiego.
Siamo uomini perché siamo in grado di generalizzare, diamo i nomi alle categorie: “albero” non indica solo quell’albero che ho nel mio giardino, ad esempio. Le categorie sono importanti perché ci permettono di riconoscere regolarità e quindi comprendere i meccanismi del mondo e migliorare la nostra capacità di costruire degli scenari futuri e prendere le decisioni sulla base degli effetti che intravediamo in quegli scenari. La scuola e lo studio allenano la capacità di astrazione, di generalizzazione dei problemi. Se poi, sempre per fare un esempio, nella vita si dovessero assumere responsabilità e incarichi pubblici, questa capacità mi servirebbe. E non tanto perché la formazione mi ha permesso di memorizzare tante informazioni.

Altrimenti, se non sono allenato a generalizzare un po’, come posso evitare di vedere la realtà uguale ai fatti per come li vivo personalmente qui e adesso? O come il gruppo di appartenenza me li interpreta al mio posto?
Come posso contenere la tendenza a pensare che la verità sia quella che percepisco e che ciò che sento non possono altro che sentirlo tutti?
Come posso non sentirmi l’unico ad essere unico? Se non ci riesco è inevitabile in certi ruoli, sentirsi di rappresentare tutti gli italiani e che se qualcuno di loro non mi votasse o sarebbe in malafede o non sarebbe stato ben educato a …. pensare come me.

Sostenevo tempo fa, tra i tanti che lo sostengono, che il problema ambientale non si può ridurre alle questioni dei parchi, della raccolta differenziata e dell’educazione ambientale, pur essendo questi temi fondamentali. Ma che la vera prevenzione di un possibile disastro socioeconomico legato ai problemi ambientali, si doveva combattere a livello culturale, nel modificare profondamente il nostro modo di vedere il consumo, il lavoro, le relazioni, preparandoci ad una decrescita non proprio felice. In particolare, mi è capitato di assumere un incarico pubblico nel distretto delle ceramiche, dove ho parte delle mie origini famigliari, cercando di perseguire l’obiettivo, per me importante di stimolare la diversificazione della vocazione produttiva. Particolarmente difficile in quella zona: gli anziani si ricordano bene il livello di benessere prima del boom delle ceramiche e come è cambiata l’organizzazione della vita e del territorio, a fronte di un benessere legato al consumo di beni, servizi, vacanze comprese che non aveva precedenti nella zona. E tutto ricondotto al boom economico legato alle ceramiche. La mia visione, in quell’occasione è stata giudicata da alcuni come non adatta allo specifico territorio, troppe fantasie culturali [sic], quando la battaglia si fa giorno per giorno piantando un albero.

In effetti, mi sono sempre sentito in colpa quando studiavo e facevo l’intellettuale, come dire: “braccia rubate all’agricoltura” (anzi no alle piastrelle) e capivo le critiche.

Ora scoppia la guerra dei prezzi del gas e dell’energia, dovuto ai costi di estrazione, a tanti altri fattori e ai costi di emissione di CO2 e sento interviste anche di responsabili di aziende della zona (ceramiche) dire che con questi aumenti non conviene neppure produrre.

È vero normalmente il mese di gennaio è un mese dedicato alla manutenzione degli impianti, ma alcune non sanno quando ricominceranno a produrre. Di fronte alla domanda sulla possibilità di scaricare il costo sul prezzo finale, qualcuno sostiene che sia possibile, ma la guerra dei prezzi lascerà “morti e feriti”. E si chiede l’intervento del governo e dello Stato, proprio quello Stato magna-magna, quella spesa pubblica insostenibile, facendo finta di non sapere che, al di là della corruzione e dell’inefficienza di tanti, i soldi vanno poi, in misura probabilmente insufficiente, al paese. A sentire tutto questo mi è venuto istintivamente di pensare: ma quando facevo il menagramo e, “filosofando un po’”, invocavo la necessità di una metamorfosi per evitare un disastro occupazionale per i nostri figli e nipoti dovuti al riscaldamento climatico, pensavo forse che questo sarebbe venuto di colpo con le persone che morivano per troppa calura?

No, pensavo, innanzitutto, ad una graduale decrescita dovuta alla modifica di quei fattori produttivi che rendevano economicamente sostenibile le nostre imprese. L’approccio culturale non era allora così lontano dalle preoccupazioni sulle condizioni concrete di lavoro e occupazione. Le riflessioni culturali non costituiscono proprio sovrastrutture che si concretizzano solo in attività che rendono piacevole il “dopo lavoro”.

Insomma, come è noto a molti e come è stato più volte scritto ma poche volte praticato da chi opera, chi non “filosofeggia” un po’, cioè non è in grado o non ha voglia di generalizzare il proprio sentire in autonome e coerenti narrazioni, non è in grado di vedersi parte di una categoria umana che non sia popolata da cloni di sé stesso e, di conseguenza, di alzare la testa da “quello che è sempre stato”, anticipando e orientando il cambiamento.

A quel punto, non si può che subire gli eventi e semmai delegare la capacità di narrazione ad altri, trasformandosi in strumenti e attori che la mettono in scena, secondo copioni scritti da questi “altri”, anzi, peggio, da nessuno a cui poter attribuire la reale paternità.

 

(24 gennaio 2022)

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