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Siamo unici, ma non siamo gli unici ad essere unici

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di Vanni Sgaravatti, #ambiente

Molti evoluzionisti riflettono criticamente sull’attribuzione funzionalista agli elementi che compongono la realtà, cioè criticano il tentativo di spiegarli sulla base della funzione che svolgono: “le nubi servono per produrre pioggia e irrorare i campi di acqua”.

Seguendo questa tesi, si commetterebbe lo stesso errore, pensando che, ad esempio, la nascita delle religioni si sia sviluppata per la funzione di rafforzare la coesione sociale come fattore più adattativo e più forte dei Sapiens. In realtà la fisica e psicologia intuitiva, formatasi con l’evoluzione, cioè attraverso i meccanismi di variabilità casuale e adattamento possono aver portato ad avere schemi innati che distinguono tra oggetti inanimati e animati, dotati di intenzionalità. Una propensione innata, che determina le condizioni per lo sviluppo successivo del sentimento religioso.

Da qui si desumerebbe l’idea di un istinto innato al dualismo (divisione anima e corpo), che solo l’istruzione e l’educazione e, quindi, l’allenamento del sistema 2, cioè del pensiero razionale può, eventualmente, orientare verso direzioni più integrate.

Pare, da alcuni studi, che i bambini sotto i 4 anni siano assolutamente propensi ad un pensiero intuitivo all’individuazione di entità spirituali che abitano dentro i corpi, le cui intenzioni sono la causa dei loro movimenti, mentre, in altri studi, i malati di alzheimer in cui il pensiero razionale è particolarmente inibito, tendono a dare spiegazioni all’esistenza dell’entità esterne esclusivamente in base alle funzioni che svolgono.

Naturalmente solo un certo tipo di educazione ed istruzione in soggetti non affetti da particolari patologie, stemperano queste visioni istintive. La principale fonte educativa è quella primaria che si svolge nelle famiglie e che spesso, istintivamente appunto, promuove narrazioni più creazioniste e magiche che evoluzioniste, in contrasto con gli insegnamenti scolastici.

Basti notare le statistiche di ricerche sulle persone che rifiutano le teorie evoluzioniste a favore del creazionismo: 6 su 10 negli Stati Uniti, 4 su 10 in Italia, 8 su dieci in Turchia e 2 su 10 circa nei paesi nordici.

Il dualismo innato, la separazione tra spirito e corpo, sarebbe, secondo tutti questi studi di psicologia evolutiva, antropologia culturale e neurobiologia, una forma di illusione con un’utilità evolutiva. Le illusioni possono essere artefatte o naturali. Tra le prime conosciamo tutti i disegni da cui emergono figure che in realtà non esistono. Chi le produce non vuole necessariamente ingannarci: siamo fatti per inferire da poche informazioni e non accurate, un’immagine complessiva, saltando cioè alle conclusioni: una nota forma di illusione cognitiva e, in questo esempio, percettiva.

Tra quelle naturali, pare che, secondo diversi studi “evoluzionistici”, si possa annoverare persino come la coscienza sia il frutto di un’illusione prodotta dalla stessa evoluzione.

(Dal libro “Nati per credere” di Girotto, Pievani, Vallortigara). “Supponiamo che, ad uno stadio relativamente tardo dell’evoluzione umana insorgano dei geni mutati, il cui effetto consista nel dare al consapevole quel piccolo tocco sufficiente, che serve a portare la mente umana a formarsi una visione esageratamente grandiosa della propria natura. In altre parole: supponiamo che mentre il sé e la sua esperienza sono e saranno sempre un pezzo di mondo organizzato, questo stesso pezzo di mondo si riorganizzi proprio in modo di impressionare il soggetto con le sue qualità fuori dal mondo”.

Questi individui sono così impressionati che si illudono di poter avere vite più lunghe e produttive e di percepire esperienze soggettive private e misteriose tali da indurre pratiche e rituali sociali per superarle e poter sviluppar forme sempre più complesse di condivisione.

Quindi, in un certo senso, la coscienza accrescerebbe la nostra autovalorizzazione metafisica.

Pensate al momento in cui nella vostra vita la consapevolezza che voi siete dei “Sé”, con una coscienza privata, impenetrabile, unica e infinitamente ricca, ha generato in voi stessi un sentimento di enorme valore per la vostra vita soggettiva, un valore che richiedeva di essere espresso.

Di solito, avviene durante gli anni della adolescenza (quando giungono a maturazione le aree della corteccia frontale del cervello). È il momento in cui facciamo quel genere di cose i cui prodotti ci imbarazzano e ci inteneriscono, quando capaci di ritrovarne traccia in un cassetto da adulti: scriviamo poesie, teniamo un diario… Abbiamo sentito l’importanza della nostra esperienza soggettiva. Abbiamo sentito che noi contavamo come creature che possedevano esperienze private. E di nuovo si ritorna a quel leit motiv: siamo unici, ma facciamo fatica ad accettare di non essere unici ad essere unici. E torniamo alla ricostruzione della realtà nella nostra camera interna di montaggio, sulla base di input rielaborati che vengono dal nostro corpo, questo sì, in contatto con l’esterno.

Si ritorna, cioè, al tema delle nostre personali narrazioni, in cui il nostro sé autobiografico diventa il protagonista di storie passate, ricostruite con il senno del poi e con una innata propensione al pensiero causale (quello che scambia segni e correlazioni per cause), alla individuazione di proiezioni di queste narrazioni per spiegare il futuro prossimo. E tutto questo per poter spiegare e dare un senso al presente.

Pare che di questo ne abbiamo bisogno, che siamo appunto nati per credere.

In questo contesto, il nostro pensiero intuitivo, quello che spesso ci dà quel piacere di spiegazioni fluide e coerenti del mondo che ci circonda, con noi dentro e che, per questo ci rassicura, sembra essere una rappresentazione parziale, a volte, distorcente della realtà stessa.

Se l’intuito, il pensiero 1 di Kahneman, è un prezioso alleato per la nostra sopravvivenza, sia quando devi scappare dal leone nella savana sia quando piloti un aereo e devi prendere una decisione in fretta, perché i comandi non funzionano e decidi di atterrare nel fiume Hudson, può diventare una fonte di inadeguatezze adattative ed esistenziali in un mondo complesso e, porta a diagnosi interpretative fuorvianti nelle persone che discorrono del mondo che li circonda, al fine di capirlo e di confrontarsi su tesi sulla realtà.

Che tra l’altro è la principale occupazione di persone come noi, che spesso quando leggono riflessioni come queste, non lo fanno per prendere una decisione operativa, come gli operatori del pronto soccorso. Non inganniamoci: l’attenzione posta agli inganni dell’istinto non sono raccomandazioni perché chi deve prendere una decisione in pochissimo tempo, pena conseguenze drammatiche per sé e per gli altri, si fermi a pensare sulle possibili illusioni cognitive della propria diagnosi.

Il rifiuto a ragionare con il pensiero razionale sui propri limiti di comprensione di sè e degli altri non può prendere come alibi, il fatto che non è un buon modo da adottare per chi deve decidere “adesso e ora”. Non è per loro o non è per noi quando viviamo quei momenti decisionali, che è indirizzata la raccomandazione ad utilizzare il pensiero critico sulle nostre propensioni istintive.

Siamo in una società complessa, si dice, in cui il pensiero razionale, il pensiero statistico sembra quello più adatto. Si pensi alla pandemia e ai nostri orientamenti decisionali e alle nostre ansie basate su rischi che, a loro, volta sono costituiti da probabilità e conseguenze, sempre espresse in percentuali.

È un esempio concreto di come il pensiero statistico o meglio probabilistico irrompe nella nostra vita come elemento efficace, anche se non efficace nel rispondere alle nostre antropologiche necessità di risposte certe.

Ma il pensiero statistico o meglio probabilistico funziona per collettivi e funziona per noi quando guardiamo con una prospettiva esterna e ci identifichiamo, appunto, in un qualche tipo di collettivo.

Un esempio, tra i tanti, di interpretazione individualista lo possiamo ritrovare quando, nell’apprendere che il 30% di certi tratti caratteriali sono ereditati viene tradotto nel fatto che “questo mio tratto per il 30% dipende dai miei genitori”.

È un esempio di come la profonda differenza tra le due espressioni, con le conseguenze operative psicologico sociali che ne possono derivare, non è così immediata e l’istinto individuale propende per una scorretta interpretazione.

Come ci spiega Kahneman in “Rumore” comprendiamo bene quando ragioniamo per collettivi e sul sociale, l’ingiustizia di giudizi e previsioni, talmente soggettivamente variabili, da portare a differenza in sentenze che vanno dai 3 ai 17 anni per gli stessi reati e le stesse condizioni o altre variabilità sorprendenti nelle diagnosi mediche.

E saremo tutti favorevoli a linee guida, che limitino tali variabilità, fino a quando non siamo noi imputati e pazienti e viviamo le stesse linee guida o protocolli, come insopportabili burocrazie e vorremmo essere ascoltati, come individui con le nostre storie e caratteristiche specifiche, anzi persino uniche.

Insomma, quando capita a noi, torniamo a non vedere che: “non siamo unici ad essere unici”, a voler vedere la nostra irriducibile esperienza privata e a immaginare qualsiasi limite alla sua espressione come una lesione di diritti individuali.

Nessun giudizio su questa tendenza, neppure implicito al momento, ma solo un’amara constatazione di un’irriducibile contraddizione. Semmai una speranza che almeno la si accetti, la contraddizione e l’incertezza, come parte del nostro mondo, come è sempre stato, ma come l’era della tecnica ci ha indotto a pensare e ad illuderci che queste fossero state bandite.

 

(4 ottobre 2021)

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