di Vittorio Lussana #Giustappunto twitter@gaiaitaliacom #Giustizia
La recente sentenza n. 32462 della Terza sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito che, nel corso di uno stupro di gruppo, le circostanze aggravanti e il relativo inasprimento della pena previsto dall’articolo 609 bis del codice penale non possano essere applicate in caso di assunzione volontaria di alcool da parte della vittima. Tale ‘bizantinismo giuridico’ risulta giustificato dal fatto che, per poter estendere le aggravanti in questione, l’assunzione di alcolici dev’essere indotta dagli stupratori, al fine di ridurre la vittima in condizioni di “inferiorità psichica e fisica”. Se, invece, una donna si ‘sbronza’ autonomamente, il reato dello stupro di gruppo diviene di gravità relativa. In pratica, si è ‘fatto a fette’ un principio, generando un collegamento, non sempre esistente, tra il bere alcolici e subire un atto di violenza carnale. Si tratta di una sentenza sostanzialmente errata, che diviene un ennesimo segnale dell’arretramento “psichico e fisico” in atto nel popolo italiano, giudici della Corte di Cassazione compresi.
Molto probabilmente, gli italiani stanno invecchiando celermente e il loro ‘rimbambimento’ appare sempre più evidente. Giustificare anche solo parzialmente la violenza sessuale, collegandola a un fattore esogeno al reato stesso, significa cercare appigli al fine di relativizzare una fattispecie molto delicata come quello della violenza sessuale, aprendo la ‘strada’ anche ad altri potenziali elementi d’indebolimento dei princìpi giuridici di esemplarietà della pena e della deterrenza dal commettere un reato così grave. Come, per esempio, quello di uno stupratore ‘sordo’, il quale, non potendo udire le grida di una donna che dice “No”, potrebbe ottenere che tali circostanze aggravanti non vengano estese anche al suo caso. Non si pensi che tale paragone da noi proposto sia puramente ironico, o poco ‘calzante’: il nesso della sordità fisica risulta assai più consistente, sotto il profilo sostanziale, di una donna che ha assunto alcolici qualche ora prima di essere violentata. Qualcuno, infatti, ha fatto notare che i giudici di piazza Cavour avrebbero posto in relazione la “minorità psichica e fisica” della vittima con la possibilità di un suo “valido consenso” al rapporto di gruppo – come peraltro ipotizzato dai difensori degli accusati – rendendo inammissibile ogni impugnazione e qualsiasi ricorso. L’intento di chi ha difeso tale sentenza era cioè quello di fare la ‘morale’ a tutti quanti, giornalisti e politici, affermando retoricamente che prima di contestare le sentenze bisognerebbe leggerle. Peccato, però, che l’unico a non leggere le relazioni tecniche allegate ai propri decreti sia solamemnte l’attuale vicepresidente del Consiglio, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio. Noi, invece, la sentenza l’avevamo – e l’abbiamo – letta, molto attentamente. Secondo i legali degli stupratori, la vittima, risultando ubriaca all’ultimo stadio, avrebbe descritto in maniera confusa la violenza subita, come se non la ricordasse neanche. Una strategia che puntava all’assoluzione piena dei propri assistiti e all’annullamento, da parte della Corte di Cassazione, della sentenza di secondo grado, non risultando applicabili le circostanze aggravanti. Ritenendo, invece, pacifica la condizione di “minorità fisica e psichica” della vittima, secondo gli ‘ermellini’ di piazza Cavour viene a cadere ogni ipotesi di “valido consenso”, confermando pertanto la pena comminata agli stupratori presso la corte di Appello ai sensi dell’articolo 609 bis del codice penale. Ebbene, tutto questo significa che, nel sistema giudiziario vigente qui da noi, per riuscire a ottenere una condanna per stupro si è costretti a rivedere ‘al ribasso’ un reato commesso, invece, pienamente. Siamo cioè di fronte a una soluzione individuata appositamente per impedire ai colpevoli di ‘farla franca’, rendendo inammissibile ogni ricorso per la manzanza delle circostanze aggravanti.
Al contrario, proprio la manzanza di tali aggravanti ha reso impossibile alla vittima di esprimere un “valido consenso”, confermando di fatto la condanna dei giudici della corte di Appello. Aggravanti che, tuttavia, non mancavano affatto, poiché l’assunzione di alcool o di stupefacenti, avvenuta precedentemente all’atto di violenza carnale, non giustifica affatto il reato commesso e una decisione che, alla fine, ha finito col moderare la sentenza relativizzandone la pena.
Insomma, è il principio giuridico a non risultare rispettato, a prescindere dal caso concreto, il quale avrebbe meritato il massimo della pena o, comunque, una sanzione ben più alta di quella confermata dalla Cassazione. Perché l’Italia rimane un Paese in cui bisogna sempre accontentarsi di quel che si riesce a veder riconosciuto, senza accorgersi che, così facendo, si finisce con l’accettare a ‘occhi chiusi’ una realtà ipocrita e dissimulatoria, costringendoci a vivere nell’ambiguo ‘grigiore’ di una giustizia ottenuta a metà, poiché basata su mezze verità. “Una situazione grave, ma non seria”, era solito dire Gulio Andreotti. A torto, ovviamente.
(19 luglio 2018)
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