di Lorenza Morello twitter@MorelloAPM
Per cominciare una riflessione da tempo analizzata da chi scrive. La maggior parte dei problemi dell’imprenditoria italiana vengono da lontano, ovvero da una mancanza di politica industriale del nostro Paese.
Ad analizzare meglio la questione, invero, si può affermare con una ragionevole certezza che, invero, negli anni ’60 del secolo scorso vi fu un tentativo di politica industriale, ma l’industria era all’inizio, e lo sviluppo pressoché “facile” in quanto le famiglie, reduci dal secondo conflitto mondiale, necessitavano in larga maggioranza di quelli che vennero poi definiti i beni di largo consumo. Produrre e vendere macchine, lavatrici e televisori era quindi, a onor del vero, impresa facile per chi aveva le capacità economiche e industriali per aprire un’azienda (una “fabbrica”per usare un termine dell’epoca che oggi è quasi demode’). Ma avere avuto due (o poco più) grandi imprese, in Italia, che hanno prodotto macchine e sviluppato il mercato siderurgico, non significa aver avuto una politica industriale. Si hanno avuto (due) grandi aziende con capitani d’industria capaci, ma fare politica industriale significa ben altro.
L’Italia ha confidato nel capitalismo, e il capitalismo è fallito. La tutela del lavoratore, tanto declamata dai sindacati, si è risolta e tutt’ora si rispecchia in una lotta di classe, dove l’imprenditore viene demonizzato. Ma senza imprenditore, non c’è impresa. La testimonianza di un connubio riuscito tra buon inprenditore e tutela dei lavoratori si è palesato per anni nella figura di Michele Ferrero, ai cui funerali la scorsa settimana si sono viste manifestazioni di stima da tutti i fronti. Perché la sua è stata ed è un’impresa che ha saputo unire fatturato in crescita e tutela del lavoratore. Un olivettiano che nulla ha da invidiare al grande Olivetti.
Ma Ferrero e Olivetti, una volta di più, testimoniano la tesi di fondo di questo scritto. Gli imprenditori che “fecero l’impresa”, in questo Paese, l’hanno fatta per capacità propria, a nulla o poco rilevando le politiche del Paese.
Negli ultimi anni, poi, l’Italia ha posto in essere un processo di deindustrializzazione e disinvestimento, ostacolando ripetutamente la creazione di grandi imprese in settori strategici. Gli esempi eclatanti non mancano: dall’elettronica (il caso Olivetti-Bull) alle telecomunicazioni (la mancata fusione tra Telettra e Italtel), dall’agro-alimentare (Sme) fino al settore farmaceutico, dove le varie imprese, invece di unirsi e creare un campione nazionale, hanno continuato a operare in solitudine finendo per essere comprate da multinazionali straniere o ridotte all’irrilevanza dalla concorrenza estera.
Negli ultimi dieci anni il numero di posti disponibili nell’industria è calato del 15% e la quantità di beni ad alto valore aggiunto prodotti nel nostro paese è precipitata del 30% rispetto al 2000.
Disponiamo di pochi grandi asset industriali con una limitata capacità di proiezione internazionale.
Mancano gli elementi necessari all’elaborazione di una politica industriale di lungo periodo: abbiamo regole, fondi e imprese in misura inadeguata.
I capitali mondiali non cercano opacità ma chiarezza, trasparenza e un quadro normativo stabile. Senza l’unione di questi tre elementi, qualsiasi riforma sarà sempre insufficiente.
(23 febbraio 2015)
©Lorenza Morello 2015 ©gaiaitalia.com 2015 – diritti riservati, riproduzione vietata
Iscrivetevi alla nostra newsletter (saremo molto rispettosi, non più di due invii al mese)