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HomeNotizieCultura & IntrattenimentoBo Summer’s, sul volumetto di Giulia Niccolai, "Cos’è poesia"

Bo Summer’s, sul volumetto di Giulia Niccolai, “Cos’è poesia”

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Giulia Niccolaidi Bo Summer’s   twitter@fabiogalli61

L’esploratrice della poesia italiana, immersa completamente nell’avventura della poesia internazionale, nell’estrema provincia del cosmo letterario sperimentale che fa, a volte, del nostro italico Paese dei Balocchi, un eterno capolavoro di resistenza.

Chissà chi ricorda il Mulino di Bazzano negli anni ’70 con Adriano Spatola, la rivista “Tam Tam”, quel purissimo periodo di vortici e sfiati di fiamma dentro la macchina della poesia sperimentale italiana come unica via d’elezione al dire.

Ed io c’ero già in quegli anni. O meglio, arrivavo poco dopo da Spatola. A futura testimonianza, cocciuto, che quella rivista era una delle poche vie d’entrata all’ambiente letterario che già era occupato da Milano e Roma, un mondo stranito e linguisticamente spinoso. Del Jabberwocky.

Ancora un libro da presentare, per non dimenticare che ancora esiste la poesia e la comunicazione. E chi ci lavora, davvero. Senza compromessi.

Giulia Niccolai, insieme con l’altra, la Milli Graffi, è una delle più divertenti figure della nostra avanguardia del secondo Novecento, poetessa di spericolare ballate, di nonsense geografici, s’è inventata una sua forma poetica personalissima, sconosciutissima ai più: i frisbees [li trovate in Poemi & Oggetti, un recente volume antologico, edito da Le Lettere, sulla marziana ultrasettantenne poliartista, nonché monaca buddista di tradizione tibetana e surreale, ma reale,  “Grande Ufficiale della Repubblica Italiana”].

Qui, invece, in Cos’è ‘poesia’ , Edizioni de “il verri”, Giulia Niccolai annuncia il suo discorso personale, che è insieme un saggio critico e un racconto di vita. E per questo mi va di presentarlo.

Eravamo a Kioto, racconta la Niccolai,  nel grande tempio Sanjusangen do, famoso per le 1001 statue di Bodhisattva i figli del Budda. 10 file di sculture in legno, ognuna di 100 personaggi quasi a grandezza naturale. Il monaco ci spegò che Sanjusangen do in giapponese significa 33. Come mai 33? Il monaco proseguì: il salone che ospita le statue dei 1001 è sorretto da 35 colonne, 33 sono gli spazi vuoti tra le colonne.

Ciò che è poesia per uno, non lo è necessariamente per un altro: Giampiero Neri sostiene addirittura che poesia sia “ipotesi”, e io sono d’accordo con lui.

E così, tranquillamente, con questa osservazione, innanzitutto, la Niccolai ci conferma di come l’idea, per altro non sempre riconosciuta, che la parola poetica, o il segno artistico, si manifestino secondo un (non)codice d’ambiguità.

E, quindi, comunicazione come forma di un rapporto sempre finalizzato ad unSanjusangendo risultato utilitaristico: comunicare per convincere l’altro della bontà più o meno convinta della mia asserzione?

Fare poesia con uno scopo ben determinato, se non aggressivo, al di là di ogni mera ipotesi, perciò sostanzialmente menzognero?

Non è la menzogna rappresentativa della poesia e dell’arte (di cui si è davvero superficialmente abituati a dire) che ci può interessare, bensì la verità di un segno anche silente di comunione, di empatia, di quella che gli antichi definivano koinonia che indica la comunione, l’intimo legame e la relazione fraterna degli uomini.

Una vera e propria dialettica contrapposizione con i codici codificati o codificabili della retorica, del discorso comune, del ‘buon senso comune’, della prassi contingente e  infine della comunicazione.

I territori in cui sostiamo ci rendono sempre attuali, seppur inconsciamente. E così i riti della poesia di ogni tempo e di ogni luogo.

Osiamo, ancora, sì,  credere che la creazione poetica possa comunque coinvolgerci in quell’ ambiguo nulla prolifico, perché tacito ma creativo e ipercomunicante.

Crediamo in uno spazio atemporale (rispetto alle storie icastiche o dell’inconscio personale), che poi è lo spazio dei miti, rivivono e si trasformano (metamorfosi) i segni ambigui della poesia, le loro comunioni, la loro eternale presenza nella dismisura fantasmatica delle assenze.

Ma, rifacendoci a Jung, dovremo prendere atto che “un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio personale. Esso poggia tuttavia sopra uno strato più profondo che è innato e che chiamiamo inconscio collettivo”.

Una dialettica conoscitiva e appassionata, seppur silente, fra inconscio e inconscio. Questo ci piacerebbe fosse il nostro essere contemporanei. E nella Storia del nostro stesso Territorio, ancora.

Di una poesia che è come ricerca di senso (senso e sensibilità, carnale e mentale e cosale) piuttosto che segno come segnale e quindi come significato.

E questo diviene un significato ovviamente impossibile se ci muoviamo nell’ambito di impoetiche forme ipotetiche.

La forma poetica, quindi, come verità, non comunicativamente verificabile, bensì profondamente sentibile. Da tutti.

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