di Vittorio Lussana
Riguardo alle polemiche relative al Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, possiamo solo dire che: a) siamo rimasti profondamente annoiati dall’ennesima polemica pretestuosa, in cui ognuno ha parlato un linguaggio a sé stante senza il minimo sforzo di comprendere torti, ragioni e circostanze; b) molti, soprattutto a destra, il Manifesto lo hanno letto solamente di recente e non lo hanno minimamente compreso, anche se qualcuno, come per esempio il senatore Claudio Borghi, si cimenta da più di un decennio nel tentativo di decifrarlo; c) alcune formule utilizzate appartengono a un contesto storico ben preciso, difficilmente replicabile, per fortuna; d) esso non delinea affatto una società marxista-leninista, bensì socialista-liberale, in cui i Partiti non serviranno più da collettori del consenso e i cittadini si autodetermineranno per conto proprio.
Va da sé che il documento riecheggi, in varie parti, la critica marxista, poiché ne utilizza il linguaggio. Tuttavia, esso non delinea una dittatura di classe, bensì un processo a lunghissimo termine. Al massimo, può essere criticato per l’alto tasso di utopismo, tipico delle dottrine ottocentesche. Ma di certo, non si tratta della teorizzazione di un colpo di Stato rivoluzionario. E anche la parola rivoluzione, dev’esser letta in un contesto gradualista e riformista. Ne consegue che la lettura fornita alla Camera dei deputati dalla presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, sia stata, al contempo, superficiale e inattuale: superficiale, poiché il Manifesto di Ventotene ha svolto una funzione diversa nel corso dei decenni e non sia strumentalmente utilizzabile come un gigantesco processo alle intenzioni nei confronti di chi è favorevole a un rafforzamento del progetto politico dell’Unione europea; inattuale, perché molte parti sono da considerare superate persino in un’ottica storicista, oltreché in quelle spiritualiste, positiviste o neo-moderniste.
Sia come sia, qui il vero problema è un altro: il tradimento dello spirito, dunque delle intenzioni, di chi lo ha scritto e dell’ispirazione che questo testo ha donato a chi ne ha apprezzato gli altissimi contenuti valoriali e di principio. Elementi, questi ultimi, che non meritavano – e non meritano – un’interpretazione casareccia da parte della premier. In un bosco, un contadino e una persona di città non vedono le stesse cose: la loro percezione del luogo in cui si trovano è completamente differente. Ciò è ancor più valido in testi come il Manifesto di Ventotene, in cui ognuno ci vede solo ciò che conosce, senza minimamente comprendere che un testo politico così importante si sottrae a valutazioni di questo genere e tipo.
Un manifesto politico non è una corsa ippica a ostacoli, come quella che si tiene ogni anno a piazza di Siena all’interno della romana Villa Borghese: siamo noi osservatori a essere viziati dal piattume della società dell’immagine, la quale pretende che tutto sia rappresentabile, immediatamente fruibile, facilmente comprensibile. Il fenomeno accade anche in altri settori professionali e culturali: ci sentiamo tutti medici, giudici, allenatori di calcio, attori o maestri di scuola, mentre invece non siamo nulla di tutto questo. Ma tutto ciò abbassa notevolmente la qualità del pensiero critico, che non è affatto omologabile. Non basta leggere il Manifesto di Ventotene, dimenticando che è il cervello l’organo che ci permette di comprenderlo. E che anche il cuore, le passioni e le nostre stesse idee giocano un loro ruolo.
Insomma, come giustamente sottolineato da Roberto Benigni, quando si critica un documento politico come il Manifesto di Ventotene, bisognerebbe per lo meno sapere di cosa si sta parlando, senza stroncature basate sull’estrapolazione di singole terminologie, filtrate attraverso una serie di verità automatiche. Perché è proprio questa la difficoltà che sta corrompendo la nostra democrazia.
Anche se tale processo degenerativo non riguarda solamente il nostro Paese.
(21 marzo 2025)
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