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La guerra fredda non è mai finita

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di Vanni Sgaravatti

Nel ricostruire il filo della storia che ha portato in tempi recenti alla ricomparsa della Russia imperiale, così come per secoli è stata percepita, sia internamente che esternamente, forse occorre capire meglio cosa è successo, a partire da quella transizione post-sovietica. Una transizione che fu interpretata da qualcuno come fine della storia, improvvidamente e con molta poca visione storica e troppo auto-centrismo e che gli eventi di oggi ci fanno capire come quella storia non solo è tornata, ma non se ne era mai andata via.

In pochi anni, dal rigido sistema sovietico brezneviano siamo passati al riformismo di Gorbačëv, alla oligarchia di una finanza senza freni, alla rinascita dell’imperialismo sotto l’egida di un ferreo capitalismo di stato.

Nel 1989 ero un giovane appassionato, tecnico, interessato allo sviluppo del territorio, alla sostenibilità dello sviluppo economico, mi trovavo a condividere queste idee con gli amici dell’Università di Siena, gli allievi del Prof. Tiezzi autore del libro “Tempi storici e tempi biologici”. Quasi per circostanze fortuite mi ritrovai a rispondere con entusiasmo alla chiamata a partecipare ad un seminario internazionale organizzato dal Komsomol, l’organizzazione giovanile del partito comunista sovietico, sui problemi ambientali. Un seminario che fu la conseguenza di un accordo tra i minatori in sciopero e il governo di Gorbačëv, che prevedeva il coinvolgimento di tecnici socio-ambientali occidentali per la valutazione di possibili soluzioni. Mi ritrovai, quindi, a coordinare un gruppo di giovani a Mosca ed in Siberia, per valutare i problemi ambientali e le possibili mediazioni sociali. Era un mondo strano, percorso in un viaggio surreale. Era appena stata approvata la possibilità di costituire cooperative o società private in partnership con quelle occidentali, c’era un movimento caotico, quasi incomprensibile, di iniziative ed i giovani del Komsomol sembravano affamati di opportunità. Ricordo ancora quando spuntavano dai posti più impensati durante quel viaggio, ai margini di una conferenza stampa, piuttosto che negli angoli di ricevimenti, personaggi che mi proponevano patti incomprensibili, espressi in modo naif con una frase come: “noi parliamo bene di voi, se voi parlate male di noi”, il cui significato mi è rimasto oscuro per tanto tempo.

Era il 1989 e solo un paio di anni dopo la grande transizione seguita al crollo dell’Urss, veniva percepita come portatrice di un vento che avrebbe potuto portare riformismo e libertà e, quando, con gli occhi del senno del poi, ci si rese conto che eravamo stati degli illusi, si liquidò la questione, almeno nella cultura corrente dei non esperti, attribuendo questa mancata occasione a responsabilità dei grandi politici e dirigenti russi ed occidentali.

Ma la storia, se la si guarda un po’ meglio, è un po’ più complicata e rileggendo il reportage di Catherine Belton “Tutti gli uomini di Putin” Edizioni: La nave di Teseo, mi rendo conto come le grandi narrazioni passino sopra le teste, ma come, alla luce di queste, si può inaspettatamente trovare un filo di continuità e un po’ di collegamenti tra queste e le microstorie vissute.

Riprendiamo allora un po’ di quella grande narrazione. Innanzitutto, nell’individuare le responsabilità dell’occidente nella delusione di quelle speranze, va ricordato che il liberismo occidentale non era quello riformista Keynesiano che aveva portato a partire dal dopoguerra, ad una diminuzione delle disuguaglianze, ad una lenta liberazione del colonialismo e ai movimenti giovanili, ma quello della Thatcher, di Reagan e del neoliberismo.

Ma poi c’è una storia tutta interna.

Al tempo di Andropov, le risorse necessarie a mantenere il potere del Kgb erano enormi ed imitare l’Occidente diventava sempre più oneroso. Non si trattava di copiare invenzioni e singole tecnologie, ma tutta quella sperimentazione dovuta alla ricerca e innovazione interna ai prodotti richiesti dai mercati occidentali. Gli uomini del Kgb avevano deciso allora di far saltare in aria la propria casa. Senza quell’ideologia si poteva mantenere meglio il potere. Andropov e il kgb si erano così preparati alla transizione fin dal 1982. Ma, se è vero che i soldi, il tesoro per darle lo stesso nome attribuito da Gollum all’anello nel “Signore degli Anelli”, lanciano segnali e spesso aiutano a tracciare la strada di una possibile narrazione, perché non ci chiediamo dove sono finite le risorse del partito e quelle statali sovietiche gestite dal Pcus? Pensiamo forse che il cambio degli uomini al vertice abbia comportato la consegna delle chiavi dei forzieri agli uomini nuovi di Eltsin? Si dice che solo il “tesoro” legale, non quello costituito da soldi in nero o da partecipazioni occulte in imprese o in depositi esteri di beni, dovessero essere 9 miliardi di dollari ma gli americani dissero che anche quelle erano molto di più.

Ed è su questa parte del tesoro che occorre fare un po’ di chiarezza. Fu Leonin Veselovsky, colonnello della direzione internazionale, che propose modi per conservare, gestire e nascondere i fondi del partito, con le partecipazioni in aziende estere, gestite indipendenti dal partito, che potevano essere vendute, sotto un controllo tenuto nascosto. Gli azionisti sarebbero stati custodi fidati e spesso molti fondi venivano sotterrati nei paradisi fiscali.

Quando il Kgb si preparò al crollo, Krjuchov, il direttore del Kgb di allora, ordinò di mettersi a creare aziende private. Quello per molti fu il segno definitivo che quella era la strada da intraprendere, la strada della fine del socialismo. Successivamente, i procuratori russi che cercarono dove fossero finiti i soldi nel passaggio tra Gorbačëv e Eltsin non li trovarono: esistevano solo vaghe tracce (Catherine Belton “Tutti gli uomini di Putin” Edizioni. La nave di Teseo. op. citata pag. 86). Era il complotto delle seconde e terze linee del kgb, a cui Putin apparteneva, la rivoluzione dell’apparato. Tutti i conoscitori dei finanziamenti del Pcus sparirono. Nikolaj Leonov capo del dipartimento analisi del kgb disse che Nikolaj Krucina si era suicidato per profonda depressione, insieme a Pavlov 81 anni, caduto dalla finestra e così Lissovolik, Direttore della sezione americana del Dipartimento internazionale.

Primakov, ex direttore economia mondiale, che aveva da tempo progettato insieme a Milstein, membro dell’intelligence sovietica, la fine della guerra fredda fece bloccare dalla sezione internazionale i tentativi dei Procuratori di andare a cercare la ricchezza del partito, contribuendo contemporaneamente ad aumentare il reclutamento di una serie di spie che controllavano le reti economiche in occidente. Tretjakov dirigente internazionale russo dichiarò (vedi reportage della Belton, op. cit.) che erano decine i miliardi e centinaia le società fantasma gestite da emigrati sovietici e custodi mandati dal komsomol (l’organizzazione giovanile comunista). Era un meccanismo, quello delle riforme di Gorbačëv e delle possibili deviazioni, studiato tempo prima, all’interno dell’Imemo, Istituto per l’economia mondiale diretto da Rair Simonjan figlio generale intelligence militare sovietico, poi messo a capo della banca di Vienna, uno dei più importanti finanzieri di Putin. Jakovlev nuovo capo della Imemo promosse le joint venture tra le neonate società russe e quelle occidentali, mentre, Gaydar figlio di un ammiraglio, spia sotto copertura a cuba e Peter Aven, figlio di accademici, (libro cit. pag. 93) studiarono, per conto dell’istituto, le riforme attuate poi da Gorbačëv.

Gorbačëv, che inizialmente aveva l’appoggio di Eltsin frenava però quelle riforme liberali, ritenendo, non a torto, che il passaggio dovesse avere la gradualità necessaria per diminuire l’impatto sulla società.

Il Kgb, però, contribuì a far cadere Gorbačëv, in apparenza a supporto dei Golpisti del partito nell’agosto del 1991, ma in realtà a favore di Eltsin, perché Gorbačëv era esitante rispetto a quella privatizzazione selvaggia, necessaria per alimentare i fondi neri da nascondere all’estero. Gli agenti nascosti nella dacia di Eltsin, nonostante secondo quanto dichiarato da Krijuchov, avessero il compito di metterlo fuori gioco, in realtà, non solo non mossero un dito, ma permisero e favorirono le comunicazioni di Eltsin fuori dalla Dacia (“Ma come?! Il Kgb organizza un colpo di Stato contro il segretario generale del Pcus, Michail Gorbačëv e non si preoccupa neppure di interrompere le comunicazioni telefoniche interne di Eltsin?” (Angelino Chiesa, “Lo Strano Golpe”).

Ma anche nella fase di transizione, il Kgb gestiva i soldi in modo occulto: per continuare a spiare alimentarono i fondi di Eurobank a Parigi e erogarono a Cuba 200 milioni di dollari, quando l’intero budget statale era 140 milioni e lo fecero attraverso meccanismi complicati che passavano dallo scambio petrolio/zucchero.

Ma la vera ricchezza, come già detto, stava nella rete esterna di aziende amiche, alimentate tramite le privatizzazioni e la conseguente assegnazione dei fondi ai custodi fidati, previa la firma di una lettera di accettazione, che li obbligava a obbedire alle indicazioni di fatto provenienti dal Kgb. A loro volta, “i custodi” li prestavano a prestanomi che operavano all’estero: erano i “borsaneristi” detti Cechoviki, che facevano rapporto a Krucina direttore del dipartimento di proprietà, Krjuckov, direttore del Kgb e Ivasko, tesoriere del Comitato Centrale (vedi op. citata, a pag 84).

Il finanziamento al Kgb passava in parte tramite quelle aziende che vendevano a prezzi gonfiati attrezzature alla Russia, disponendo, quindi, di grandi sovraprofitti che venivano utilizzati anche per finanziare i partiti comunisti all’estero, oltre a ricevere tangenti da tutte le aziende che volevano lavorare nel paese.

Il Procuratore generale Stepankov riuscì a scoprire un deposito in Finlandia, con beni come petrolio, metalli venduti a prezzi stracciati a aziende amiche come Fiat, Merloni, Olivetti, Siemens, Thyssen, che, in parte, facevano affari vendendo attrezzature mediche che potevano essere trasformate in attrezzature militari e in parte rivendevano a prezzi altissimi. Gli enormi sovraprofitti formavano fondi neri per il kgb in svizzera e alle Cayman (vedi op. cit. a pag. 82). E i procuratori non riuscirono a recuperare i soldi, perché erano nascosti in transazioni con materie prime, che passavano da depositi non censiti. I meccanismi di contrabbando, le aziende amiche e i custodi fidati furono lo schema che Putin sviluppò operativamente, mentre tutti i capi delle quattro sezioni del Fsb in cui fu diviso il Kgb dichiararono di non avere il controllo sui propri agenti. La Russia istituzionalmente corrotta, governata nell’ombra dalle seconde e terze linee del dipartimento internazionale del FSB, portarono quindi al fallimento delle riforme promosse da Gorbačëv. Le privatizzazioni, come è noto non portarono a distribuire ricchezze. Solo quelli che avevano una banca come Chodorkovskij ce la potevano fare: l’inflazione aumentò, i prezzi aumentarono, la disoccupazione e la povertà pure e i voucher che Gorbačëv volle distribuire come bonus per l’acquisto di quote di proprietà delle aziende da parte dei lavoratori furono venduti ai futuri giovani oligarchi per un po’ di pane. Imprevedibilmente, in una fase successiva gli oligarchi presero la mano agli uomini del Kgb. Il caso più eclatante fu quello di Chodorskovskij e la sua banca la Menatep bank (op. cit. pag. 100). Chodorkovskij diceva: “la nostra bussola è il profitto, il nostro idolo sua maestà finanziaria, il capitale”. E non era molto diverso da quello che tempo dopo Putin sosteneva quando benediceva gli imprenditori russi: “l’unico vostro socio sono io, massimizzate il profitto accumulate ricchezze, altrimenti non servite a nulla”. L’esempio più chiaro di cosa significa capitalismo di stato.

Fino al 1993 Chodorkovskij prendeva ordini per trovare merci, poi cominciò a considerare sua la Menatep Bank, costituì una joint venture sovietico svizzera controllata da kgb con Michail Maratovič Fridman, un imprenditore russo co-fondatore di una società di investimento internazionale con sede in Lussemburgo, di Alfa Group e di Alfa-Bank, una delle più grandi banche private russe (op. cit. pag. 97).

La clausola normativa russa che fu il peccato originale di questo arricchimento finanziario incontrollato stava nella opportunità e necessità di creazione di banche. E solo chi riusciva in questo poteva davvero arricchirsi con le privatizzazioni. Ogni nuova azienda poteva chiedere un prestito alla propria banca alimentata da fondi statali e da operazioni in valuta. Cambi di valuta fissati a 66 copechi per dollaro. Chodorkovskij, ad esempio, approfittò del cambio e inondò la Russia di computer con un cambio interno di 40 rubli per dollaro. I margini erano incredibili. In cambio dei prestiti gli oligarchi gestivano le imprese e vendevano le partecipazioni, ma a prezzi stracciati ed a loro stessi e la loro forza stava nelle relazioni corrotte che comprendevano anche Anatolij Cubajs, il viceministro. Gli oligarchi si staccarono dal Kgb, i cui dirigenti riuscirono a prendere solo il 5% della Lusenko e il 40% della Surgutnetfegas, ma solo con operazioni di forza, cioè bloccando fisicamente chi avrebbe dovuto partecipare all’asta. Vladimir Olegovič Potanin, ex vice primo ministro della Federazione Russa, imprenditore russo, oligarca e miliardario, tra i più ricchi della Russia con un patrimonio netto, secondo Forbes, di 28 miliardi di dollari riuscì a prendere una quota di controllo della Norilsk Nickel produttore di Nickel sopra il circolo polare artico, con profitti di 12 miliardi di dollari, pagando solo 170 milioni di dollari. Chodorkovskij comprò con 159 milioni di dollari il 40% della Jukos e con altri 150 milioni di dollari un altro 33%. Sibneft, che controllava la maggior parte di produzione di auto, fu comprata per 100 milioni di dollari da Berezovskij. Sette banchieri controllavano il 50% dell’economia nazionale.

Ma la rivincita e la riconquista del “tesoro” da parte del Fsb, ex Kgb, era solo questione di tempo, come pure la riconquista dell’occidente. In quella fase, però, l’Fsb, dovette aumentare il livello di violenza e di illegalità nella caccia di denaro con le alleanze con le mafie di San Pietroburgo. I suicidi degli oligarchi degli ultimi anni sono solo l’ultimo passo di un percorso ben studiato, che cominciò con la corruzione dei Procuratori russi, compreso quello generale e delle cause miliardarie all’estero che fecero di Londra la città denominata Londongrad, in cui studi legali, società finanziare e lord inglesi deputati si arricchirono.

In conclusione, in Russia si viveva alla fine degli anni ’90 sotto l’incubo di vendersi per ottenere qualsiasi cosa: chi aveva la valuta forte era re, altrimenti eri un emarginato. Queste erano le condizioni e si può immaginare cosa volesse dire vivere in quel clima, in cui i poveri combattono con i poveri per sopravvivere, i rapporti si degradano. I russi che si portano dietro una secolare abitudine alle discriminazioni si abbandonarono facilmente a quel cinico fatalismo russo, combattuto a dosi di alcool prima e di nazional-imperialismo dopo, in particolare ai giorni nostri. Le seconde e terze linee a san Pietroburgo si prepararono alla riconquista del potere dall’interno, al parziale rientro delle risorse dall’estero. Piano piano il Kgb riconquistò terreno e, di nuovo, senza la protezione del Kgb non si poteva lavorare. Tutto nell’ombra, con l’aiuto di georgiani, ebrei, ceceni, quelli che non avevano possibilità di fare una carriera normale. Fu l’inizio del rapporto con la criminalità organizzata da San Pietroburgo fino a New York e fino all’economia trumpiana delle sue case da gioco. Il comunismo, inteso come movimento politico culturale teso alla distribuzione delle risorse e dei diritti di proprietà a tutti in relazione ai propri bisogni, almeno come finalità utopistica, era definitivamente finito all’epoca dell’holodomor e del suicidio della moglie di Stalin, la sera dopo aver detto al marito che molti dirigenti bolscevichi le avevano chiesto se sapesse degli orrori che stavano facendo e se poteva fare qualcosa. Si riferiva ai milioni di morti di fame ucraini. Da allora è riemersa la sovranità imperiale, come elemento di ordine e di conflitto geopolitico. A partire dal fordismo, il capitalismo, in occidente, avevano già da molto tempo trovato un rapporto tra produzione e consumo molto più efficace del socialismo statale, in termine di competitività e di potenza.

In questo contesto, sono abbastanza ridicole e surreali le espressioni di posizioni politiche contrapposte denominate con i termini sinistra, destra. Mentre, alla luce di queste narrazioni, la grande storia si allaccia a quella mia piccola e personale citata all’inizio e riesco a dare una risposta ai miei dubbi di allora sugli strani fenomeni nel mio viaggio siberiano. Tutti, in quell’epoca di caos oscuro, accompagnavano e si affiancavano agli occidentali, non c’erano i dirigenti segreti del Kgb, non si scomodavano più, ogni funzionario rappresentava il sistema e nessuno lo rappresentava. Chi mi parlava, lo faceva per conto della Russia.

E quei signori che proponevano quell’assurdo scambio erano il frutto di una propaganda voluta, però, dal kgb, di cui tutti i funzionari si facevano carico: favorire il mito salvifico della finanza occidentale. “Noi parliamo bene del vostro sistema capitalistico e noi parliamo male del nostro vecchio sistema socialista”.

Questo era il senso di quella proposta: il supporto sociale che nascondeva la privatizzazione selvaggia. Un fenomeno in cui i neoliberisti occidentali erano collusi, ma tutto interno alla storia russa.

 

(8 aprile 2024)

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