di Vittorio Lussana
Sulle note della canzone di Renato Zero, Viva la Rai, un brano ancora oggi in larga parte censurato, che faceva parte di uno dei lavori migliori di Renatino, in cui ricordava la dura gavetta vissuta al Piper di Roma, sono cominciate le celebrazioni per i 70 anni di Mamma Rai. Un brano estremamente intelligente, quello di Renato Zero, che ammiccava in più punti alle varie forme di prostituzione intellettuale e sessuale e a un’omosessualità a lungo mantenuta nascosta da un giudizio di abominio morale, da parte della cultura cattolica dominante in questo Paese. Perché allora, non si poteva nemmeno fare outing senza finire fuori dal giro e non lavorare più, anche se eri “bravissimo” a detta di tutti.
La canzone di Renato Zero prendeva in giro, gramscianamente, la cultura generalista e nazionalpopolare della Rai, che tendeva a nascondere ogni verità sotto al tappeto di un’apparente oggettività. La frase: “Dice la Rai soltanto il vero…” fa diretto riferimento alla continua censura che veniva operata a viale Mazzini da funzionari zelanti, contro artisti, culture alternative e forze politiche. Il Pci viveva costretto in un’alienante camicia di forza, per non dover mostrare il fianco ai tanti bacchettoni; i socialisti, a loro volta, provavano, un po’ timidamente, ad aprirsi alle tematiche libertarie; i democristiani mantenevano la loro cappa incombente, che risaliva ai tempi di Filiberto Guala e dell’Azione cattolica. Infine, i Radicali di Marco Pannella non potevano neanche avvicinarsi alla televisione di Stato, poiché giudicati “folli” e “trasgressivi”, secondo i canoni di una cultura media che è sempre corruttrice del pensiero critico, nel tentativo di contenerne e limitarne i contenuti più innovativi. Come nella miglior tradizione clerico-fascista di questo Paese, che tende a portarsi la rivoluzione al proprio interno, anziché anticiparne le mosse e provare ad articolare nuove risposte.
Per carità, la Rai ha svolto un ruolo importantissimo nell’acculturazione degli italiani, che erano arrivati sin quasi alle soglie degli ‘anni 60 del secolo scorso in una condizione di semi-analfabetismo: una testa di turco che, ancora oggi, “vive e lotta insieme a noi”, per dirla con Walter Veltroni, accertata e dimostrata da studi autorevolissimi e non certo inventati. A una zattera ideologica di sinistra corrisponde, qui da noi, una cultura di destra che non intende fare il benché minimo passo verso una modernizzazione dei costumi, paurosa nei confronti di ogni forma di cambiamento. Come se un Paese potesse fermarsi e segnare il passo con le masse, anziché spingerle a riflettere e ad evolversi.
Oltre a tali polemiche intestine, che in ogni caso Renato Zero fece bene a sollevare con intelligenza nel bellissimo ‘Via Tagliamento 1965-1970’ – che corrispondeva, in molti brani, a un sonoro pernacchio verso l’ipocrisia cattolica che lo aveva mantenuto, per interi decenni, a uno stadio di talento inespresso, nonostante una voce potentissima ed estremamente intonata – nell’affrontare questi temi siamo sempre noi quelli costretti a ricordare l’altra faccia della medaglia del generalismo-Rai. E allora tiriamola fuori questa storia, ripescando nei meandri più soffocanti del qualunquismo italiano in merito alla funzione di un medium di massa – la televisione – che pur tra infinite mediocrità, ha avuto un’importanza fondamentale nel fornire un’impronta unitaria all’identità collettiva degli italiani. Un lascito storicamente ambiguo, carico di contaminazioni formali, che hanno modificato profondamente la nostra indole nazionale attraverso una versione controversa di modernità, composta da molte ombre e scarsissime luci.
Ebbene, quella che il 3 gennaio 1954 iniziò a trasmettere dagli studi di Milano fu una televisione di Stato che si pose, immediatamente, una serie di drammatiche preoccupazioni di ordine pedagogico e censorio. Sin dal primissimo biennio, contraddistinto dalla direzione generale di Filiberto Guala, vennero emanate alcune norme di regolamentazione e autodisciplina che, in molti punti, risultavano estratte di peso dalle indicazioni del Centro cattolico cinematografico: un organismo che aveva già causato danni inenarrabili, con le sue ridicole amputazioni e la propria condizionante influenza sul fronte della produzione filmica nazionale. Per lungo tempo, nella televisione italiana non furono consentite: a) la rappresentazione di scene che potessero turbare la pace sociale o l’ordine pubblico; b) l’incitamento all’odio di classe o la sua esaltazione; c) sabotaggi, attentati alla pubblica incolumità, conflitti con le forze di polizia e disordini pubblici, i quali potevano esser rappresentati con somma cautela e sempre in modo che ne risultasse chiara la condanna; d) opere di qualsiasi genere che portassero insidia all’istituto della famiglia, che risultassero truci o ripugnanti, che irridessero alla legge o che risultassero contrarie al sentimento nazionale; e) particolare riguardo doveva essere mantenuto di fronte alla santità del vincolo matrimoniale e verso il rispetto delle istituzioni; f) il divorzio poteva essere rappresentato solo allorquando la trama lo rendesse indispensabile e l’azione si svolgesse ove ciò risultava consentito dalle leggi; g) le vicende che derivavano dall’adulterio e che con esso si intrecciavano non dovevano indurre antipatia verso il vincolo matrimoniale; h) un’attenta cura doveva esser posta nella rappresentazione di fatti o episodi in cui apparivano figli illegittimi.
Autodisciplina a parte, l’allora responsabile dei palinsesti, Enrico Pugliese, nel corso della loro messa a punto oscillò continuamente tra una sottovalutazione delle possibilità del mezzo, una blanda vena enciclopedica e l’intento di educare l’italiano medio sotto la luce cui esso appariva ai nostri tutori ecclesiastici. Gli spettacoli di maggior successo furono, perciò, i testi teatrali mandati in onda alla sera del venerdì; il programma L’amico degli animali, condotto da Angelo Lombardi, uno zoologo un po’ sgrammaticato; una rubrica di curiosità erudite, etimologiche e un poco antiquarie dal titolo Una risposta per voi, affidata a un professore di biblioteconomia, Alessandro Cutolo, frequentatore a Napoli del mitico salotto di casa Croce. Vennero, inoltre, introdotte le prime trasmissioni a quiz, ricavate dai modelli americani e francesi: Lascia o raddoppia, presentato da Mike Bongiorno; Il musichiere, condotto da Mario Riva; Telematch con Silvio Noto, Enzo Tortora e Renato Tagliani; Campanile sera, ancora con Enzo Tortora e Mike Bongiorno.
Questi programmi si rivolsero all’everyman italiota con l’espresso scopo di rassodarne la tranquilla coscienza di benpensante. Tuttavia, ciascuna di queste trasmissioni finì con l’imprimere sul costume una propria impronta specifica e peculiare: Lascia o raddoppia santificò una cultura nozionistica sostanzialmente mnemonica, del tutto priva di ogni attitudine critica; Il musichiere preannunciò l’avvento di un dialetto romanesco leggermente purgato come nuova lingua nazionale, scardinando definitivamente l’antica sintassi letteraria del fiorentino storico, le ultime vestigia del lombardo–manzoniano e lo stesso purismo franco-piemontese tanto caro al sempre più dimenticato, Edmondo De Amicis; Telematch creò modi di dire che divennero immediatamente metafore di uso nazionale; Campanile sera, che si riprometteva un qualcosa di molto vicino a un’operazione di affratellamento nazionale tramite la competizione tra due località assai distanti tra loro, rappresentò un vero e proprio atto di ratifica di un Paese caratterizzato unicamente da folclorismi, gonfaloni, acerrime rivalità localiste e strapaesane.
Infine, per quanto piatti, insulsi e slavati, i primi telegiornali consacrarono definitivamente il successo del nuovo mezzo di comunicazione: storicamente in poca confidenza con la carta stampata, gli italiani scoprirono che il notiziario in diretta rappresentava una finestra sul mondo e, dietro le benedizioni, le varie pose di prime pietre e l’inquadratura di qualche doppiopetto ministeriale, essi cominciarono a intravedere qualche squarcio di verità.
Sia come sia, la nascita della televisione, qui da noi, ha sostanzialmente rassicurato la natura più ambigua e dissimulatoria degli italiani. I quali, grazie a mamma Rai, sono stati trasformati nelle vittime predestinate di una modernità narcotizzata, che ha imposto vessazioni rieducative assolutamente incapaci di distinguere fra il contratto di assicurazione stipulato da questo Paese con la Chiesa cattolica e la persistenza, nel suo seno, di una religiosità autoritaria e familista. La qual cosa, ha mantenuto in vita una mentalità paternalista e ipocrita, infarcita di pesantissimi retaggi d’inciviltà giuridica e morale.
Eppoi, c’è tutta la mia personale critica al Festival di Sanremo, accettata da amici e colleghi poiché espressa attraverso le cose migliori, maggiormente estetizzanti, ch’io abbia mai scritto negli anni della mia lunga formazione professionale. Infatti, mentre a Parigi, Georges Brassens e Juliette Gréco, già negli anni ’50 del secolo scorso interpretavano brani musicali imperniati sui testi di Jean Paul Sartre, fino alla fine degli anni ’60 e al suicidio di Luigi Tenco, in Italia continuarono a imperversare le marcette melense di Armando Fragna (‘Arrivano i nostri’; ‘I cadetti di Guascogna’; ‘I pompieri di Viggiù’), mentre il seguitissimo Festival di Sanremo consacrò canzoni grondanti uno stucchevole patriottismo (‘Vola colomba’); una satira tremebonda (‘Papaveri e papere’); lacrimosi elogi della maternità (‘Tutte le mamme’); squallidi inviti al servilismo (‘Arriva il direttor!’).
In conclusione, la televisione italiana ha quasi sempre trasmesso un malcelato disagio culturale, che ha finito col trascendere ogni rispetto verso le leggi dello Stato, in quanto sintomo di insicurezza di fronte ai fenomeni di secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita individuali, in cui l’accordo di fondo tra due soffocanti pedagogie collettive – quella cattolica e quella comunista – ha finito con l’incidere profondamente sull’equilibrio psicologico e sul destino sociale di intere generazioni, secondo i canoni di una democrazia sonnolenta e noiosa, identificata e confusa con l’ordine pubblico, nonché finalizzata a mantenere i giovani in un limbo di staticità e immobilismo, negando loro non soltanto un passato in cui riconoscersi, ma un qualsiasi tipo di futuro verso cui dirigersi e integrarsi.
Tanti auguri, mamma Rai: madre incestuosa e un po’ mignotta, dispensatrice di stipendi immeritati. Qualcuno doveva pur dirtelo qual è stato, veramente, il tuo orribile volto, senza troppe maschere e infingimenti: quello di un’omologazione reazionaria devastante. Soprattutto, nei confronti dei tuoi figli migliori.
(4 gennaio 2024)
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