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Sogni di cambiamento, innovazione e sostenibilità: una storia nel progetto Bio on Plants

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di Vanni Sgaravatti, #gaiambiente

Dietro una storia principale, in questo caso quella della nascita, dello sviluppo e del declino della favola della Bio on, la start up e unicorno della biochimica dell’Emilia-Romagna, se ne annidano molte altre che spesso rimangono sconosciute, sottotraccia, ma che portano dentro una parte di verità con relativi sentimenti.

Quella che ho vissuto io ha una sua originalità. Ne ho vissute diverse anche dentro lo stesso progetto Bio on, ma quella che mi preme raccontare è quella che parte dal progetto di costruzione dell’impianto innovativo di produzione della bioplastica. E da questo punto di vista, all’interno di questa microstoria, anche i personaggi assumono connotazioni differenti.

Emerge dalle intenzioni dei fondatori il progetto di un impianto che avrebbe dato un corpo, a idee innovative, di sviluppo sostenibile, di cambiamento, forse etico. Non importa se le intenzioni dei pionieri-protagonisti (gli imprenditori) fossero quelle più legate al business di una start up che avrebbe dovuto sorprendere i mercati, entrando in un settore di moda, oppure se questo fosse motivato da personali bisogni personali di riscatto oppure se era un progetto per cambiare il mondo. Le cose si pianificano in un modo e poi diventano altro e il divenire viene influenzato da come si narrano e da come si condivide la narrazione.

Anche per esigenze personali, quelle di trovare una “ciotola”, come dice un mio amico, quando interpreta la necessità di avere incarichi remunerativi e non solo gratificazioni sulle mie competenze, nate da un percorso non del tutto dentro il sistema, mi ritrovo nel progetto della costruzione di Bio on Plants.

Esigenza, quella della “ciotola”, che con gli anni, aumentando di importanza, invece di diminuire, ha contribuito a farmi ritrovare, quindi, dentro quel “luogo”: il cantiere dello stabilimento. Ero stato indotto a rifugiarmi nel cantiere, per difendermi e prendere distanza, dalla sede della governance economico finanziaria, dove si stava consolidando un “cerchio magico”, in cui le parole stavano diventando autoreferenziate, dove i modi di vedere la realtà erano diversi, distanti gli uni dagli altri. Un ambiente con caratteristiche rischiose per gestire la complessità che aumentava e che, peraltro, tendeva ad espellermi (per evitare fraintendimenti, parlando di cerchio magico non faccio riferimento ad alcuna intenzione non corretta, disonesta o speculativa).

Devo ammettere che lo stesso ambiente mi permise di allontanarmi dalla governance, per essere, però, collocato in quel luogo: il cantiere di Bio on Plants. E questo era anche dovuto al coraggio e al cuore, che non mancava, del pioniere fondatore protagonista, che continuava a credere nelle persone, per motivi personali, aziendali o sociali non importa.

Tanti sono i motivi che hanno portato a successi ed errori, comportamenti innovativi ma anche forse a cecità di fronte a trappole organizzative che erano note. Ma questo non è un trattato di sociologia organizzativa, né vuole essere un report sulla vicenda. Le spiegazioni e le responsabilità di come sono andate le cose non è parte di questo racconto e sarebbe un peccato di presunzione, immaginare di trovarle, tante e tanti sono gli intrecci. Il filo del racconto è un altro: una storia personale, annidata tra le tante che si possono raccontare.

Sono finito in quel luogo, scoprendo piano piano le condizioni per la realizzazione di qualcosa di magico e che molti sognano, ma che soprattutto chi si occupa di personale e organizzazione spera sempre di riscoprire. Anzi, in cui si possono riscoprire illusioni e speranze, ricoperte da polvere e dimenticate tra il baule di concetti entusiasmanti che imparavi da giovane.

Certo ero sempre un pesce fuor d’acqua, un po’ perché non vivevo in pieno la vita di cantiere, non sapendo stringere bulloni o digitare algoritmi ingegneristici, un po’ perché non venivo da una storia di relazioni personali precedenti, con i tecnici che stavano realizzando il progetto. E paradossalmente, anche se fuggivo dal top del cerchio magico, quello che si occupava della governance economico-finanziaria per intendersi e in cui ero vissuto come un corpo estraneo, l’uomo che parlava di regole e di procedure, nel cantiere, inizialmente, venivo visto come quello imposto proprio dall’alto.

Vanni Sgaravatti

Ci sono riti che determinano la coesione dei gruppi e mostrano chi sta dentro e chi sta fuori. Riti che si manifestano proprio in tutte le occasioni non di lavoro, ma dentro il lavoro. Le pause, pranzo, i coffee break. Però l’entusiasmo reciproco sembrava rompere queste barriere e anche per me si aprivano le porte dei “gruppi”, pur nel rispetto dei ruoli.

E ho cominciato: mi sono messo a fare il cacciatore di anime. Cercavamo persone competenti. Un po’ come avrebbe potuto fare Colombo e i suoi ufficiali per formare l’equipaggio delle caravelle, per andare alla scoperta dell’America. E tutti si sentivano importanti, tutti cominciavano ad avere la sensazione di fare qualcosa di importante. Anche io cominciavo a sentirmi dentro al progetto fino in fondo e importante non per il ruolo, ma rispetto agli obiettivi di quello che facevamo.

Certo c’erano sempre i cerchi magici. I luoghi dove le informazioni venivano scambiate solo tra chi poteva e chi decideva un po’ più degli altri. La partecipazione a quelle riunioni, l’accesso ai pranzi con i fondatori o, viceversa, l’esclusione da questi momenti ti faceva sentire incluso o escluso. Ma tutto sommato si procedeva tutti insieme.

E poi la selezione procedeva. Incontravi persone che desideravano partecipare all’avventura. I più navigati, i più specializzati contrattavano un po’, anche perché avevano una famiglia con cui fare i conti e che non gli permetteva di mollare il lavoro che avevano per partecipare al progetto che cambiava l’ambiente o il mondo.

Altri invece erano emozionati, ansiosi, trepidanti, ed entusiasti se venivano selezionati, senza se e senza ma. Quante storie. Sembrava di realizzare davvero un ambiente in cui si creavano competenze nuove, in cui davvero tutti erano o meglio sarebbero stati uguali.

Avevamo davanti a noi mesi di formazione, inserimento, parallelamente alla costruzione del progetto, dello stabilimento. Ricordo una storia per tutte, una storia tra le tante.

Una signora, giovane, di origine rumena, arrivata in Italia molti anni prima, che aveva mantenuto tutta la sua famiglia anche facendo lavori ripetitivi, qualcuno direbbe umili. Non solo la reclutammo, non solo abbiamo avuto e dato fiducia alle sue potenzialità e capacità di riprendere in mano una formazione tecnica, dimenticata, ma lo abbiamo fatto, quando anche lei dubitava di sé stessa. Lei, come molti altri studiavano la notte a casa quello che imparavano. Durante il giorno si imparava in aula e poi sul campo, si simulavano situazioni critiche.

Arrivavo sul campo, facendo visite a sorpresa. Era il test della “nonna”. Avrebbero dovuto rispondere a situazioni che anche una persona non esperta, una nonna appunta, poteva creare e avrebbero dovuto rispondere con un linguaggio che tutti avrebbero dovuto capire, anche una nonna, appunto.

Passammo dalla formazione e dalle prove nei container a quella fatta nei laboratori che furono inaugurati. Dal fango in cui le macchine di cantiere piantavano i pali delle fondamenta, alla installazione dei grandi bio reattori: vedevamo nascere i nostri nuovi ambienti, la nostra casa. E avevamo davanti a noi i disegni di come sarebbero potuto diventare i nostri uffici e laboratori: la nuova silicon valley di Castel San Pietro.

Noi avremmo ripulito i mari dalla plastica. Non so perché, non so come, attraverso il mercato, i prezzi, i margini, le remunerazioni attraverso tutto questo. Sì, ma per la prima volta il lavoro e i parametri di efficienza e di efficacia erano davvero strumenti per raggiungere gli obiettivi e non viceversa. Ed era la qualità anche etica di questi obiettivi che faceva la differenza.

Erano destinati ad essere operatori di un centro controllo impianti tra i più innovativi. Ricordo una persona che aveva perso lavoro e non sperava di poter rientrare nel mondo del lavoro, vista l’età avanzata, che si faceva spiegare la chimica, sempre di notte, dalla figlia ricercatrice.

Arrivarono i momenti delle prove, delle verifiche. In palio c’era la conferma di assunzione, si cominciava a pianificare le squadre che lavoravano su tre turni per 24 ore. Le persone si presentavano al colloquio di fine periodo di prova, ansiosi, qualcuno piangeva. E alla fine tutti commossi si e mi abbracciavano.

Ricordo anche che eravamo tentati a non salvare proprio tutti, con angoscia e grande dispiacere, che, personalmente, mi portavo anche a casa. Occorreva trovare un equilibrio tra l’obiettivo di includere tutti e quello di non dare messaggi fuorvianti: l’impegno doveva trovare un riscontro, per la salute dei gruppi. A onor del vero, il giorno dei risultati dal pioniere fondatore, arrivò un messaggio: “non si manda via nessuno”.

Non parlo di quello che succedeva nel top, nella gestione finanziaria del cerchio magico. Certo i pionieri-protagonisti erano visionari e avevano alcune caratteristiche che ne facevano imprenditori innovativi e coraggiosi (la conformità alle norme che regolano i mercati delle loro decisioni aziendali nell’ultimo periodo, ripeto, non è il tema di questa storia). Errori di tipo tecnico gestionali ci sono stati. Del resto, quello non era il ruolo dei pionieri fondatori e forse l’errore era quello di non delegare davvero ad altri questo ruolo. Fatta eccezione per il cantiere dello stabilimento. Ma non è questo il tema di questa storia. Il tempo che ci hanno permesso di avere per la formazione e la difesa del luogo da intromissioni improprie è stato anche merito loro, dei fondatori. Almeno nel periodo di riferimento di questa storia.

Troppo facile sarebbe naturalmente citare per me i meriti del comandante di quel luogo, l’amico che era riuscito a portare le caravelle al di là dell’oceano e che si è fermato solo quando hanno tolto tutti i viveri alle caravelle. Ma questa storia non è neppure scritta per celebrare i meriti dei grandi amici e compagni. Ci sarà anche quel momento.

Questa è la storia di quel cantiere: i problemi di ognuno erano problemi di tutti. Come quello della ragazza che faceva due ore per arrivare allo stabilimento e non sapeva come lasciare il cane, perché viveva da sola, o quando c’erano problemi di culture diverse. O ancora ricordo la nostra sincera costrizione, gli occhi tristi quando imparavamo che uno dei dipendenti, uno di noi, aveva un problema personale importante. Ricordo che, in quei casi, le imprecazioni per non riuscire a trovare la soluzione tecnica ad un problema ingegneristico quotidiano passavano in secondo piano o almeno erano considerate sullo stesso piano. Ricordo il lavoro del laboratorio di ricerca e qualità che dal nulla creava procedure, protocolli, immaginando come avremmo dovuto comportarci. Scrivendo le prassi e le regole credevamo di fare anche noi, anche quel laboratorio, un pezzo di storia.

Ricordo come lavoravamo perché nessuno lasciasse indietro nessuno, bisognava essere competitivi, preparati, ma non lasciare indietro nessuno, aiutare il compagno. E osservavo quei comportamenti, quelle relazioni, studiavamo come perfezionarle. Oppure, ricordo che, anche quando il gioco si faceva duro, ponevamo le domande sulle priorità negli interventi sulla sicurezza: e tutti recitavano: “prima le persone, poi l’ambiente, poi il business”. Ripetute continuamente, un errore nell’affermare priorità diverse non era accettabile. Era un errore grave.

E poi le emozioni dell’avvio dello stabilimento. Notte e giorno il comandante della caravella era presente, gli ingegneri e i ricercatori facevano le prove, le persone si scambiavano mansioni, rinunciavano ai riposi sotto la supervisione del Davide, che gestiva con cuore e competenza l’amministrazione e presiedeva il rispetto delle regole sulle sicurezze e i turni. La fatica cominciava a farsi sentire, ci si aspettava che le promesse potessero essere mantenute.

Poi ricordo quel giorno. Era il 24 luglio, dormivo, erano le 6, mi sveglia un messaggio di un mio amico che dice: “hai letto il giornale. Secondo un signore della finanza, che vuole demolire Bio on, voi sareste delle scatole vuote”. E i nostri turni di notte, i primi sacchi di pha, di bioplastica, sono forse un parto della nostra fantasia?”

Il sogno cominciò a sgretolarsi davanti ai nostri occhi. Il fermo degli impianti, il silenzio, il velo di tristezza nei compagni per la perdita del nostro progetto. Poi piano piano, le preoccupazioni personali hanno preso il sopravvento. E poi la depressione. Le lotte per far sentire la nostra voce, gli incontri, con persone esterne, piombate come marziani nello stabilimento, con parole inizialmente rassicuranti, ma sentite come vuote. E tutti, ancora per un primo periodo, attaccati a speranze, dure a morire.

E poi è arrivata la fase dei proclami, delle promesse, dei richiami alla realtà del mercato, della finanza, delle leggi, quelle fallimentari, quelle che tutelerebbero i risparmiatori che giustificano e giustificavano il comportamento di giudici, avvocati, commissari. Ragioni e conti che non tornano, più.

Per fortuna individualmente molti di quelli dell’equipaggio della caravella Bio on Plants, hanno trovato una collocazione, ma quella storia, quel sogno, quei momenti sono rimasti nel cuore e nella memoria.

E io il narratore, un primo ufficiale della caravella, sono sbarcato, fuori dal sistema, apprezzato per le mie idee, ritorno alle filosofie, alle teorie organizzative e di management, quelle innovative, sulla carta, come sempre. Non solo nostalgia, preoccupazioni per situazioni difficili, e da questo punto di vista ce ne sono, ma forte disillusione, perché è sempre più difficile continuare a credere nella “parola degli uomini”, quando parliamo di cambiamenti. Potrei spiegare io stesso le dure regole del change management. In fondo è la mia competenza, ma viverlo così in prima persona è sempre un’altra cosa.

Personalmente, si torna a chi sta dentro e chi sta fuori. È vero, tutto nasce e tutto muore, ma avremmo potuto farlo durare un po’ di più, per noi, per il mondo, per la vita. Comunque, ho tutte le foto, in quel bellissimo dossier, ricordo tutti i nomi, tutte le storie, sono nelle mie personali registrazioni, sono nel mio cuore. Siete stati compagni, di una storia breve, intensa per le speranze che si portava dietro. In fondo anche questa è stata una storia d’amore. Quindi, quando sento parlare di far rinascere Bio on all’interno di un progetto strategico nazionale, come quello sui vaccini, o quello di valorizzare i brevetti che certificano quel know how, chiederei, per favore di tenere conto che, per qualcuno, quelle parole sono pietre, che desidererebbe fossero magiche.

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