di Mila Mercadante twitter@Mila56170236
Non ho la coda di paglia: il questionario inglese distribuito in alcune scuole del Regno Unito non è difendibile se non si vuole semplificare a tutti i costi. Il sito butac.it – citato su Twitter da Luca Sofri – semplifica, se la prende coi giornalisti nostrani – che invece stavolta non meritano il nostro biasimo – segnalando la fuffa mediatica intorno a un non-caso, tanto più che come i siciliani e i napoletani, nel medesimo questionario, anche cinesi, bengalesi, arabi e berberi trovano più opzioni di lingua e perciò la faccenda non ha niente a che fare con la discriminazione. Spiega butac.it che vi è un dato di fatto innegabile: alcuni di noi (i meridionali in particolare) l’italiano non lo parlano, o perché conoscono il dialetto e basta, oppure perché quando vanno all’estero ci si attaccano per non perdere le radici. Mah. Se si segue questo ragionamento si finisce col rafforzare le differenze culturali senza per altro motivarle e si congela tutto nell’immutabilità, il che è di per sé negazione del dinamismo sociale e individuale, è qualcosa che odora di vecchio, di trapassato remoto.
Il meridionale sicuramente emigra più del milanese, su questo non ci piove, ma secondo quale regola non scritta egli dovrebbe parlare male la lingua italiana preferendole il dialetto? E se pure fosse vero, chi ha stabilito che questa particolarità rappresenti un handicap? Un conto è ritenere a priori che certe fette di popolazione vivano in uno stato di regressione permanente e un conto è saper distinguere tra società razionale e società tradizionale. La società tradizionale – vivaddio – persiste in ogni regione da nord a sud e tiene a salvaguardare la propria forza antistorica. Essa adopera la lingua regionale per difendersi dal dominio del “tutto uguale”, così come certi gruppi (gli sportivi, i musicisti, i componenti di una crew, i gruppi parentali) sviluppano e perfezionano una parlata difficilmente comprensibile agli estranei allo scopo di creare una forma di separazione non ostile dalla società razionale e globale, che ha patologicamente perduto la memoria.
Conservare ciò che si teme di perdere non impedisce all’emigrante di creare – da solo, senza aiuti – ciò che non è mai esistito usando una capacità di percezione che si affina e si sviluppa ex novo in contesti nuovi. Conosco personalmente almeno due casi di napoletani emigrati a Londra che erano e rimangono più affezionati alla lingua dialettale che a quella nazionale e che hanno frequentato poco la scuola; ciò non gli ha impedito di inserirsi molto velocemente nel mondo del lavoro, di imparare l’inglese, di trovare un equilibrio nel processo di socializzazione pur mantenendo ben salde le vecchie abitudini e di affermarsi economicamente prima e meglio di altri più colti e preparati. Insomma: non è l’ignoranza che determina certi atteggiamenti, e non è detto che l’uso quotidiano del dialetto impedisca ad alcuni l’assimilazione degli stimoli esterni facendoli restare “indietro” rispetto ad altri nel processo di integrazione. Il quesito scolastico britannico non è razzista ma senz’altro discrimina e mette in evidenza proprio l’insistere delle istituzioni sulla conformità a canoni rigidi. La scuola fa sempre il contrario di ciò che dovrebbe fare: individua dei soggetti e li considera come entità a sé stanti che separano la realtà oggettiva dal loro mondo interiore. Questo è il presupposto per l’annullamento della creatività individuale, e quindi della bellezza in senso lato, ed è anche un modo gentile e apparentemente premuroso di stigmatizzare il napoletano, il siciliano o il bengalese, i quali evidentemente avrebbero bisogno di supporti, indicazioni e attenzioni maggiori e/o particolari.
La lingua dialettale non presenta caratteri di scissione se non in coloro che vogliono vederla come una difformità. Nelle culture morenti l’ansia di incasellare ogni individuo dentro coordinate riconoscibili diventa spasmodica, cosicché l’insegnamento scolastico decide di tener conto della provenienza regionale degli allievi italiani. L’aspetto oggettivo-utilitario morde e ferisce il suo opposto, che è l’aspetto affettivo-partecipativo. Impostare l’educazione scolastica o l’inserimento degli stranieri in un determinato paese partendo dal presupposto dello “svantaggio” culturale è un metodo falso e riduttivo che sancisce due tristi verità: la prima è l’estraneità reciproca tra gli idividui che accolgono e quelli che vengono accolti; la seconda è la storica e volontaria emarginazione di ogni sud, che è solo bello e che è perfetto per esotiche vacanze.
(13 ottobre 2016)
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