di Vittorio Lussana twitter@vittoriolussana
Con l’avvicinarsi delle elezioni amministrative romane, dei problemi reali della capitale d’Italia si parla assai poco. Si continua a star dietro a tatticismi e alleanze possibili, oppure alle frasi più o meno scomposte del singolo candidato, in base a una personalizzazione ‘all’americana’ della politica che continua a deformare ogni contenuto. I vari candidati a sindaco di Roma continuano a disporsi secondo il substrato ideologico grezzo e primigenio dell’Italia di un tempo: autoritaria e demagogica, qualunquista e perennemente in contraddizione. Anche la gradevole candidata del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi, di recente ha dichiarato di non desiderare l’appoggio “dei ‘palazzinari’ romani”, secondo un’ottica post marxista che, come al solito, fotografa perfettamente una situazione per poi indirizzarla, regolarmente, nella direzione sbagliata. Roma non è una città di aziende agricole o imprenditorialità arrembanti, ma una megalopoli che offre soprattutto servizi. Non è Barcellona o Milano, bensì una città ‘di fiume’, come Parigi, Londra o Madrid. L’unica categoria d’imprenditori che essa possiede è proprio quella dei costruttori, i quali non sono più quelli che hanno trasformato la città dei ‘7 colli’ nella vittima predestinata del piccone e della cazzuola, ma i loro figli o nipoti. Uno di questi è persino candidato a primo cittadino con una propria lista civica, nel ridicolo tentativo di svincolarsi dalla ‘stretta’ dei Partiti. Il personalismo interpretato dal nipote omonimo di un ‘palazzinaro’, benché uno di quelli ‘degni’, che si preoccuparono di mettere un ‘tetto sulla testa’ a una popolazione di immigrati meridionali scaraventati tra borgate ‘puzzolenti’ e ‘baraccopoli’ disperate, si basa sull’assurda convinzione di poter strappare agli altri Partiti i propri rispettivi ‘bacini’ elettorali: o costui non ha mai capito nulla di politica, oppure si serve di una pessima agenzia di comunicazione, come da più parti mi viene, peraltro, confermato. La sua strategia, benché meno confusa rispetto a quella della Raggi, è comunque molto subdola: egli vuole raggiungere un consenso elettorale da porre immediatamente in vendita tra il primo e il secondo turno, quello del cosiddetto ‘ballottaggio’, al fine di ottenere un assessorato o qualche altra garanzia ‘clientelare’: solamente così sanno far politica questi qui. La candidata del M5S chiede voti nel tentativo di “far voltare pagina” alla ‘città eterna’ e, probabilmente, non sa neanche bene da dove cominciare per riuscire a farlo. Ma per lo meno non pretende che le idee dei propri elettori si trasformino in una ‘dote’ personale e non manifesta una concezione ‘mercificata’ del consenso. Detto in altri termini, Virginia Raggi non sembra avere le idee molto chiare sul da farsi, ma i voti che riuscirà a ottenere non sono destinati a quell’assurdo ‘mercato delle vacche’ che la formula maggioritaria del ‘doppio turno’ legittima e consente. La personalizzazione della politica ha da tempo distorto il diritto di voto dei cittadini, che non sono più i diretti ‘mandatari’ dei propri rappresentanti nelle istituzioni o negli enti locali, bensì sono stati trasformati, nel loro complesso, in una ‘mandria’ da mettere all’asta. Ecco, dunque, la vera ‘cantonata’ presa da tutti quanti negli anni della seconda Repubblica: trasformare gli elettori in ‘moneta di scambio’, con la tipica faccia ‘tosta’ dei demagoghi. Se Giachetti o la Raggi non dovessero vincere direttamente al primo turno, Bertolaso, Meloni, Marchini e Storace diventeranno un unico ‘gregge’, già soppesato e ‘venduto’ in partenza. Meglio, a questo punto, arrivare a un ballottaggio tra Pd e M5S. Anche per togliersi lo ‘sfizio’ di osservare un elettorato reazionario e ‘destroide’ che, pur di impedire la vittoria di un candidato laico e ‘post radicale’, sarà disposto a sostenere le utopie più confuse e visionarie di un movimento sorto dalle platee teatrali di un comico, a dimostrazione di come il clerico-fascismo romano sia sempre pronto ad accogliere ogni tipo di contenuto pur di non abdicare alla propria ‘matrice’ assolutista, demagogica, profondamente antidemocratica. Nel frattempo, i problemi concreti della città resteranno inaffrontati, a testimonianza della grande illusione vissuta da Partiti politici ormai totalmente privi d’identità e di ogni autenticità culturale. Il frutto di una ‘fiction’ orrenda, che ha saputo unicamente teorizzare un mondo sepolcrale, se non un vero e proprio cimitero: quello della più nobile tradizione umanista italiana, considerata ormai defunta. Nella società del ‘nuovismo’ a tutti i costi, la seconda Repubblica non ha più parole per gli italiani, poiché per ogni giorno che passa essa riesce a rappresentare sempre di più l’assenza, la rassegnazione, il ‘sonno’ di un Paese che si è spento in una morte incolore. Un disfacimento fatto di volgarità e oscure deiezioni, come quelle percepibili in numerosi angoli nascosti della capitale d’Italia. Una metropoli che ha perduto qualsiasi identità, senza più spazi ‘dannunziani’, papalini o barocchi, seppellita dalla sporcizia soprattutto nei suoi quartieri ‘umbertini’. Una Roma ormai esclusa tanto dal cristianesimo, quanto dal socialismo, poiché coloro che possiedono, oggi, l’Italia, nel loro delirio demenziale riescono unicamente a immaginare dei ‘non luoghi’ destinati a essere vissuti da ‘non persone’.
(1 aprile 2016)
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