di Vittorio Lussana twitter@vittoriolussana
Chi ha letto Stendhal sa bene che le vicende di Julien Sorel ne ‘Il rosso e il nero’ riflettono i sentimenti, gli slanci, le miserie e le passioni di tutta la gioventù francese della Restaurazione. E chi conosce le ‘Lezioni proibite’ di Jules Michelet può comprendere appieno quanto poco estemporanee siano le teorizzazioni dei giovani in quanto ‘classe’, la loro autoassegnazione di una missione rivoluzionaria, la fiducia smisurata nel potere dell’immaginazione e della parola, l’idea della necessità di una ‘controcultura’. Sin dalla metà del secolo XIX, tutte le generazioni della fascia euro-americana hanno incontrato un evento storico attorno al quale hanno costruito la loro identità: le guerre di indipendenza in Italia e in Germania; i moti rivoluzionari del 1848; la guerra di secessione negli Stati Uniti; la guerra franco-prussiana; l’affaire Dreyfus; la rivoluzione russa del 1905; la prima guerra mondiale; la rivoluzione sovietica del 1917; il volontariato internazionale in Spagna; infine, la Resistenza contro il nazismo e il fascismo. Certamente, stiamo parlando di conflitti. Tuttavia, in tutti questi casi si è sempre trattato di conflitti ad ‘alto tasso di legittimazione ideologica’, di guerre sentite come giuste, giustificate dalla ‘domanda’ di autodeterminazione dei popoli o dall’ormai necessaria modernizzazione di società arretrate come, appunto, quella italiana. Durante il ‘68, ciò che veramente fece da ‘collante’ di un’intera generazione fu, dunque, il ricatto di una guerra nucleare, la quale condannava l’umanità alla perpetuazione di tutte le sue disuguaglianze e di tutte le sue ingiustizie. Anzi, in base a ciò possiamo persino arrischiare un giudizio: i ‘moti’ del 1968 furono sostanzialmente un idioma, un nuovo ‘linguaggio’ teso a includere tutte le forme di espressione, intellettuale e corporea, che si erano posti il fine di generare un nuovo spazio politico niente affatto destinato alla conquista del potere sulla società, bensì al libero esercizio della comunicazione intersoggettiva. In buona sostanza, l’idea portante non fu quella di volersi impadronire del ‘potere’, bensì di costruire nuovi spazi di espressione più libera, che consentissero a ognuno di divenire un soggetto di decisione e azione. Delineato in questi termini, c’è da dire che, in Italia, il ciclo della protesta durò, tutto sommato, piuttosto poco: cominciò con l’occupazione dell’Università di Pisa nel febbraio del 1967, passò attraverso le occupazioni di altre sedi universitarie (Milano, Trento, Torino, Padova, Roma e Napoli) e si esaurì rapidamente il 31 dicembre del 1968, con la spettacolare e disperata manifestazione davanti alla ‘Bussola’ di Marina di Pietrasanta, allorquando la polizia aprì il fuoco per la prima volta ferendo gravemente un dimostrante. La storia successiva fu semplicemente quella di un ‘rifluire’ di minoranze già precedentemente politicizzate in formazioni fortemente critiche nei confronti del ‘revisionismo’ di Pci e Psi, ‘frutti avvelenati’ che, con alterna fortuna, diedero poi vita a ‘gruppuscoli rivoluzionari’. Occorre inoltre sottolineare come, nei suoi mesi più ‘caldi’, il movimento studentesco abbia mostrato una duplice composizione: da una parte, vi fu l’adesione e la presenza di leader e militanti prestigiosi provenienti dai Partiti storici (Guido Viale e Gianmario Cazzaniga), dalle organizzazioni studentesche tradizionali (Marco Boato), dai nuclei nascenti della ‘Nuova sinistra’ (Adriano Sofri, Romano Luperini e Umberto Carpi); dall’altra, la caratteristica del ’68 ‘italiano’ è stata quella di aver evidenziato una massa enorme di giovani ancora privi di esperienze associative, dunque ansiosi di estrinsecare la propria creatività e di liberarsi dalla ‘cappa’ di gerarchie burocratiche, gerarchiche e ‘familiste’ che li stava opprimendo da ogni lato. Ciò che ha umanamente alimentato una seppur breve fusione ‘olistica’ di tanti ragazzi fu, insomma, una vera e propria ‘fiammata’ di comunitarismo cameratesco, allegro e fortemente inventivo. Una sorta di ‘carnival estudiantin’, unito al singolarissimo clima che si era venuto a creare durante le occupazioni: nelle sale e nei corridoi delle facoltà, i ragazzi suonavano la chitarra, dormivano nei ‘sacchi a pelo’, dipingevano ‘murales’ e facevano all’amore, mentre nelle interminabili assemblee in cui si discuteva la ‘linea’ a nessuno veniva negata la performance individuale, l’esibizione narcisista, l’ora di notorietà sancita da un applauso o dall’approvazione di un documento, una mozione, un ordine del giorno. Tutto ciò, naturalmente, non esclude il dato che anche il ’68 non debba essere analizzato nelle sue profondità più propriamente politiche. Ma su tale versante non è neanche possibile negare come esso sia germogliato come reazione a un fortissimo ‘disagio’ dovuto alle ‘strozzature’ dello sviluppo economico italiano, combinato a una staticità del nostro quadro politico che faceva letteralmente ‘cadere le braccia’. Nel nostro Paese, le agitazioni presero le mosse da un’ostilità generale verso il progetto di legge n. 2314 – il cosiddetto ‘piano Gui’ – all’interno del quale, nonostante un’intera legislatura di discussioni, tutte le evidenti e necessarie modifiche dell’ordinamento universitario si erano risolte in ‘briciole’ che continuavano, fondamentalmente, a negare ogni forma di autonomia degli atenei, rivendicando altresì con arrogante puntiglio il controllo dell’esecutivo su ogni provvedimento emanato dagli organismi accademici. In altri Paesi, i problemi sollevati dai movimenti studenteschi avevano toccato la scuola solamente per chiedere una maggior agibilità e, nelle università, per sollecitare una reale indipendenza della cultura dal potere. Qui da noi, invece, la ‘battaglia’ contro il ‘piano Gui’ finì col rappresentare l’unico elemento di coagulo prevalente, il solo realmente di massa. Pertanto, le elaborazioni di giovani teorici, spesso assai pregevoli, rimasero isolate, poiché la ‘battaglia’ venne trasformata ‘in negativo’, facendole assumere caratteri di retroguardia. In Francia, questo non accadde affatto: dopo il ‘joli mai’, Georges Pompidou si affrettò a predisporre una riforma generale delle università che riuscì a porre fine al controllo ministeriale sugli atenei, tarpando per sempre le ‘ali’ a ogni genere di contestazione. Anche in Italia si tentò d’imboccare la medesima strada con il ddl n. 612, il quale prevedeva un reclutamento più severo dei professori, l’obbligo del tempo pieno, l’incompatibilità con l’esercizio della libera professione per il personale docente, la pianificazione delle sedi con divieto di corsi decentrati e organi di autogoverno degli atenei fondati su meccanismi di rappresentanza autenticamente democratici. Ma i democristiani la ‘buttarono’ subito in ‘caciara’, accusando i socialisti di voler imporre una ristrutturazione sostanzialmente ‘libertaria’ degli atenei. Ecco per quale motivo di quel progetto di legge non se ne fece mai nulla. E solo alla fine del 1969 si riuscì a giungere a un estenuante ‘palliativo’, denominato ‘Codignola uno’ – Legge n. 910 del 1969 – attraverso il quale si decise finalmente di liberalizzare l’accesso a tutte le facoltà per i diplomati di tutte le scuole secondarie superiori, autorizzando gli studenti a predisporre, tramite la presentazione di ‘statini’, ovvero piani di studio individuali difformi dalle propedeuticità, alle volte assai stucchevoli, determinate dall’alto. Tuttavia, anche il ‘Codignola uno’ si confermò una legislazione ‘monca’, che arrivò con estremo ritardo e che, esattamente per tali motivi, non riuscì a impedire che le conseguenze del ’68 dilagassero, negli anni successivi, verso un pericoloso ‘gruppuscolarismo’ arrogante e opportunista.
(11 marzo 2016)
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