di Gianfranco Maccaferri twitter@gfm1803
Sono stati 57mila gli italiani che nell’ultimo anno sono emigrati in Gran Bretagna. Il numero di Italiani residenti nel Regno Unito è di circa 600mila persone, dato che fa di Londra – con 250mila residenti italiani circa – la quattordicesima città italiana, subito dietro Verona. La maggioranza dei 57mila che ha lasciato l’Italia nell’ultimo anno sono giovani partiti senza avere un contratto di lavoro. Dopo aver attraversato in aereo la Manica hanno cercato un posto letto a basso costo e si sono proposti per i lavori più umili, soprattutto in ristoranti e alberghi, pronti ad adattarsi a qualsiasi impiego gli venga proposto. La speranza di questi giovani è in futuro di inserirsi e trovare il lavoro per il quale hanno studiato in Italia o un impiego che gli consenta di vivere decorosamente. Sono giovani con spirito di avventura e con tanta voglia di costruirsi una vita decente, senza più pesare economicamente sulla famiglia. Probabilmente molti avrebbero preferito restare in Italia, accanto agli affetti e alle sicurezze che comunque parenti e amici assicurano, ma la situazione economica italiana non garantiva loro nessun futuro e così hanno scelto l’avventura di una nuova terra, nuovi rapporti sociali, nuove esperienze.
L’emigrazione dei giovani italiani è un fatto maturo: già nel 2011 una ricerca Gfk Eurisiko affermava che il 59% dei giovani italiani voleva andare a lavorare all’estero e il 43% di loro sognava di lasciare l’Italia definitivamente (sempre del 2011 secondo Eurispes il 51% dei giovani tra i 25 e i 34 anni progettava di trasferirsi all’estero): quello che non dice il sondaggio è che gli Italiani in Inghilterra sono spesso soggetti a trattamenti piuttosto duri, il razzismo è forte, l’opposizione sociale anche, e vengono accusati di vivere sulle spalle del Welfare inglese; così che le ultime proposte, e le ultime ondate migratorie, stanno spingendo molti politici populisti (non è Salvini ad essere contagioso, è l’ignoranza) a spingere affinché ai cittadini UE in generale, e quindi anche agli Italiani, venga sbarrato l’ingresso nella squallida isoletta d’oltre Manica.
I giovani hanno spirito di avventura e di adattamento che permette loro di partire, di rischiare, di misurarsi con altre realtà; hanno una vita davanti a loro ed è giusto che ci provino, dicono di loro coloro che non la pensano nello stesso modo quando ad entrare in Italia sono altri giovani di altri paesi. Così languono, i poveri genitori abbandonati, mentre attendono con ansia e preoccupati notizie rassicuranti: un posto dove dormire (che sia anche solo una stanza da condividere con altri poco importa), un lavoro che permetta di sopravvivere (che sia come facchino in hotel o al lavaggio di automobili poco importa): troppo impegnati ad avere notizie dell’emigrato pargolo per pensare che magari un posto di facchino c’era anche in Italia, felici di essere rassicurati sul fatto che il ragazzo sta bene, guadagna a sufficienza per vivere, ha un tetto dove rifugiarsi e non viene presa a calci in bocca dai fascisti del National Front. Noi italiani che in patria c’accontentiam di poco e all’estero siamo tutti geni, scopriamo la felicità della chioccia quando veniamo informati che, dopo essersi registrati regolarmente, i nostri ragazzi possono usufruire di alcuni sussidi sociali, dell’assistenza sanitaria e di tutto ciò che il welfare britannico concede a chi risiede lì per oltre sei mesi.
Loro, i nostri giovani, sono disposti a tutto pur di riuscire nella loro sfida, accetteranno umiliazioni che in Italia non hanno neppure pensato che un giorno avrebbero dovuto subire, sono addirittura disposti a rendersi conto che “ze pen is on ze teibol” non è Inglese, ma una lingua che riescono ad insegnare solo nelle scuole pubbliche italiane e spagnole, così ci si mettono di buzzo buono: l’orgoglio impedisce loro di tornare sconfitti. E per costruirsi un futuro nel Regno Unito l’Inglese va parlato meglio dei britannici.
Questi italiani nuovi emigranti provengono soprattutto da Veneto, Lazio e Lombardia: hanno quasi sempre in tasca una laurea o almeno un diploma, ed il loro dettagliatissimo curriculum descrive ciò che hanno fatto. Sono giovani. Il tempo gioca a loro favore. Magari perderanno anche la pessima abitudine di stare solo fra italiani. Scelta devastante per chi deve imparare una lingua straniera.
E noi? Noi che li abbiamo persi [sic] i nostri ragazzi? Che ci hanno lasciati per l’ignoto d’oltre Manica? Noi pensiamo che hanno il dovere di provarci i nostri ragazzi diobono, siamo orgogliosi del nostro entusiasmo, pensiamo a quanta energia stanno impiegando a costruirsi un futuro, il loro futuro. Salvo poi maledire i loro coetanei africani che a loro volta vengono nel nostro paese per costruirsi un futuro con in tasca non un curriculum, non solo una laurea, spesso due o tre lingue straniere, ma la sfiga di avere studiato in un paese i cui diplomi e lauree non sono riconosciuti dall’Italia; o di essere fuggiti in fretta e furia perché da dove vengono loro avere vent’anni e voler vivere il futuro è un attentato ai loro governi che li arrestano arbitrariamente, li seviziano, li torturano, li sbattono in galera. Volere studiare è farsi ammazzare dai Talebani.
I nostri ragazzi se ne vanno nel Regno Unito ed in fondo non è colpa loro se in Italia non hanno speranze, non hanno opportunità, rischiano di invecchiare senza costruire nulla, se l’Italia non è il territorio dove realizzare i progetti e i sogni. È giusto che partano se l’Italia li offende, li umilia, li deride e noi siamo fieri della loro temerarietà. Gli Africani che fuggono dai loro paesi per le stesse ragioni, più qualcuna anche più seria, invece questo diritto non ce l’hanno. Se da noi Salvini è dio perché dice di voler salvare i nostri figli, i razzisti britannici sono dei nazisti perché i nostri figli li minacciano. Ci infuriamo quando ci raccontano di avere subito una discriminazione, ci stupiamo; ci indignamo quando veniamo a sapere che il buttafuori di una discoteca non li fa entrare perché italiani, quando ci raccontano che non sono invitati ai party dove i loro colleghi vanno a divertirsi; quando avvertono che è difficile essere accettati dai loro coetanei; quando si accorgono che la loro nuova ragazza si vergogna a presentarli ai genitori… ma come? Non è quello che agli immigrati che arrivano in Italia succede tutti i giorni nella nostra indifferenza? Fa male solo quando è carne della nostra carne?
Certo. Noi sappiamo che sono dei bravi ragazzi e non ci capacitiamo del come fanno ad esistere ancora discriminazioni e razzismo verso i nostri giovani. A noi c’hanno insegnato a sentirci “ragazzi dell’Europa”, noi abbiamo il convincimento culturale di (ma non i mezzi per) essere “cittadini del mondo”. Sono i cittadini del mondo che parlano tre lingue ed arrivano con lauree non riconosciute che devono star fuori dall’Italia.
Così ci troviamo a pensare che è davvero inaccettabile il fatto che esistano ancora in Europa, in America, in Australia, delle sacche d’ignoranza tra la popolazione che determinano luoghi comuni pericolosi e ingiustificati nei confronti dei nostri giovani. Luoghi comuni fomentati da stereotipi e paure che pensavamo appartenessero al secolo scorso, come il Ku Klux Klan. Che invece è ancora lì. Travestito da persona perbene che formula tanti pensieri di rifiuto del razzismo quando tocca i loro pargoli e rimane totalmente indifferente di fronte al razzismo praticato sotto il suo naso.
Non c’è peggior nazismo culturale del far finta di nulla.
(1 settembre 2015)
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