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Giustappunto! di Vittorio Lussana: “Roma Capoccia!”

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Vittorio Lussana 02di Vittorio Lussana  twitter@vittoriolussana

Roma possiede il più grande patrimonio storico, culturale, monumentale e archeologico del mondo intero. Il territorio di pertinenza comunale si estende per più di 150 mila ettari: un’enormità rispetto ai 19 mila di Milano e ai 13 mila di Torino. Da sempre affetta da un parassitismo incurabile, come le inchieste di ‘Mafia Capitale’ stanno svelando proprio in questi giorni, la capitale d’Italia è totalmente priva di infrastrutture economiche e di autonome capacità produttive: una città di impiegati e ‘stipendifici’, in cui tutto si fa tranne svolgere le funzioni a cui si è preposti. Sin dai tempi dello Stato pontificio, questa metropoli vive di redditi importati e non conosce praticamente nulla del capitalismo moderno. Dopo averla circonfusa con un ‘goffo’ alone di maestà, il regime fascista, mediante una legge emanata nel 1941, tentò di dotarla di una zona industriale, formata dai comprensori di Tor Sapienza, lungo la via Tiburtina e di Grotte Celoni, sulla Casilina. Ma tutto rimase sospeso a causa del conflitto mondiale e, nell’immediato dopoguerra, quando il Consiglio comunale riprese in mano la questione, dopo lungaggini interminabili riuscì finalmente a varare un piano particolareggiato di opere pubbliche. Ma quella decisione arrivò con un ritardo tale che i termini per le agevolazioni fiscali, tese a favorire nuovi investimenti, erano ormai scaduti. E più nessuno si sognò di rischiare denaro in favore di lande desolate, che tali rimasero per lunghissimi decenni. A causa di ciò, Roma non ha mai posseduto una vera e propria ‘cintura industriale’ in grado di assorbire il suo irrimediabile tasso di disoccupazione. Sin dal 1870, la sua intera area è stata investita da possenti ondate migratorie, ma essendo totalmente sprovvista di una qualsiasi ‘valvola di sfogo’, tutto ha finito col ricadere irrimediabilmente sulla città, che ha finito col diventare la vittima designata del piccone e della cazzuola: ogni metro quadrato di suolo è stato considerato fabbricabile, case e palazzi hanno iniziato a protendersi verso l’alto nella più totale assenza di vincoli urbanistici e nella più ‘allegra’ inosservanza delle poche norme vigenti, provocando un’assurda dilatazione a ‘macchia d’olio’. Già durante il fascismo, quando gli ‘sventramenti’ di Marcello Piacentini espulsero brutalmente i ceti popolari dal centro storico, iniziarono a sorgere, lugubri e malsane, le ‘borgate’, quelle descritte con tanto dolore da Pier Paolo Pasolini. Seguendo il modello di Acilia, scaraventata nel 1924 all’interno di una ‘sacca malarica’ lungo la via Ostiense, tra il 1930 e il 1940 l’Istituto per le case popolari e altre società immobiliari hanno costruito i quartieri di Villa Gordiani, Valmelaina, Tufello, Tiburtino III, Pietralata, Quarticciolo, Trullo, Primavalle: tutti arcipelaghi sconnessi e urbanisticamente incoerenti, ai quali sono stati in seguito affiancati i reclusori, assolutamente abusivi, di San Basilio, Prenestina, Tor Pignattara, Tormarancio e Centocelle. Deputate ad accogliere gli immigrati più poveri, queste borgate non vennero affatto ‘addossate’ alle ultimi propaggini della città, bensì vennero separate da lunghe strisce di verde ‘brado’, terreni che nel dopoguerra improvvisamente cominciarono a salire di prezzo, scatenando una speculazione edilizia senza scrupoli. Se si considera che tra il 1945 e il 1975, Roma è risultata invasa da circa due milioni di italiani provenienti da ogni parte del Paese, in particolar modo dalle regioni del Mezzogiorno, si può ben comprendere come certi suoi ‘acciacchi’ abbiano finito col generare una situazione complessiva assolutamente invivibile, che ha totalmente privato la ‘città eterna’ di un proprio quadro sociale effettivo. Ogni rione si è trasformato in un ‘satellite’ a sé stante. E le periferie rappresentano solamente degli enormi ‘quartieri dormitorio’. Questi due milioni di nuovi romani, giunti dall’Abruzzo, dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia, dovettero adattarsi all’offerta di lavoro propria di una megalopoli di burocrati, consumatori e turisti: il 60% entrò nell’amministrazione dello Stato; il 16% venne impiegato nei settori del commercio e dei trasporti; il restante 24% non poté far altro che lasciarsi assorbire dai sempiterni e onnipresenti cantieri edilizi. L’arretratezza delle attività terziarie ha permesso loro, talvolta, di perpetuare l’artigianato delle regioni di provenienza, per cui gli abruzzesi sono diventati calzolai, i molisani arrotini, i sardi pasticcieri e via dicendo. Ma se si eccettuano coloro che sono entrati a far parte dell’amministrazione pubblica – in larga parte siciliani – la maggior parte di questi immigrati ha potuto solamente adeguarsi alla precarietà stagionale del mestiere di muratore. Una città come Roma, ricca di un ghiotto bottino di parchi privati e con un patrimonio senza eguali di beni artistici e archeologici da salvaguardare, necessitava urgentemente di un piano regolatore che ne salvasse le ultime vestigia dagli ‘artigli’ di costruttori senza scrupoli. Anche perché, orrendi agglomerati ‘intensivi’, sin dagli anni ’50 l’hanno letteralmente afferrata ‘alla gola’, mentre una lottizzazione selvaggia delle aree prospicienti l’Appia antica ci racconta la vergognosa vicenda di molti ricchi della ‘Roma bene’ che, stanchi e disamorati dei Parioli, si son fatti costruire ville lussuosissime incastonando tra le pareti numerosi ruderi archeologici ritrovati in mezzo ai prati. Nel 1954, il Consiglio comunale decise perciò di incaricare un Comitato tecnico – formato da ottimi urbanisti quali Ludovico Quaroni e Luigi Piccinato – con il compito di anticipare i nuovi lineamenti di una razionale ‘capitale del futuro’. Nel novembre del 1957, il ‘piano’ era pronto: per rompere l’accerchiamento delle speculazioni, arrestare la macchia d’olio dell’abusivismo edilizio e alleggerire il peso insostenibile della mole di servizi che grava, da sempre e quasi interamente, sulla città vecchia, esso prevedeva un’espansione verso sud-est da realizzarsi attraverso una grande arteria di scorrimento munita di centro direzionale. Inoltre, allo scopo di dirottare un traffico, in entrata e in uscita, interamente scaricato – esattamente come oggi – sulle vie consolari, quel progetto disegnava un sistema viario imperniato sulla costruzione di un primo tratto dell’attuale Grande Raccordo Anulare e, nell’intento di porre un freno al saccheggio dei parchi massacrati (Villa Chigi, Villa Savoia, Villa Torlonia, Villa Doria Pamphili) imponeva una conservazione rigorosa di tutto il centro storico, oltre a una serie di espropri di pubblica utilità. Quel ‘piano’ non fece neanche in tempo a essere presentato ufficialmente che subito gli esponenti degli ‘interessi lesi’ inscenarono una mezza sommossa: i commercianti gridarono alla spoliazione; la Società generale immobiliare si ‘stracciò le vesti’ accusando il Comitato tecnico di attentare alla proprietà privata; gli enti ecclesiastici, che da secoli possiedono alcuni ‘feudi’ alla periferia occidentale (in particolar modo i Salesiani) spronarono i propri ‘protettori’ in Campidoglio. Risultato: l’allora maggioranza consiliare, guidata dal sindaco Urbano Cioccetti e costituita da democristiani, liberali, monarchici e missini, negò a quel progetto la propria approvazione e, nel giro di due anni, ne fece predisporre un altro, redatto da docili funzionari, che avviò uno sviluppo urbanistico verso sud-ovest, in ‘direzione mare’, mantenendo la strutturazione monocentrica della città, riducendo il progetto di costruzione dell’anello autostradale a mero segmento della ‘Autosole’, nonché approvando un sostanziale accrescimento per ‘addizioni spontanee’ che ‘santificarono’ definitivamente la crescita a ‘macchia d’olio’ con una gigantesca ‘sanatoria’ di tutti gli scempi compiuti. Dopo un decennio di abusivismo ‘inaudito’ e solamente ‘all’alba’ del 1962, una nuova amministrazione di centro-sinistra riuscì ad approntare un piano regolatore finalmente ragionevole, che introdusse criteri sino ad allora sconosciuti alla storia urbanistica della città dei 7 colli: il principio della ‘destinazione d’uso’, con il quale si obbligarono i piani particolareggiati a specificare le attività consentite nelle diverse zone (centro storico, trasformazione edilizia, ridimensionamento viario e così via); il parametro della ‘superficie utile’, che permise di eliminare gli innumerevoli ‘trucchi’ legati al cosiddetto ‘rispetto dei volumi’ prescritto nel 1959; il concetto di una progettazione unitaria per comprensori, da attuarsi mediante consorzi fra i proprietari in ossequio a precise norme riguardanti la densità e la percentuale dei suoli assegnati a residenza o a servizi, quali scuole, strade, verde, asili, ospedali e parcheggi. Ma anche tali buoni propositi valsero a poco: il ricorso continuo a uno stillicidio di varianti, la macchinosità delle procedure, la sfacciata violazione delle regole fondata sul convincimento che nulla di ciò che ormai era stato costruito potesse essere demolito vanificò le buone intenzioni di quell’ulteriore ‘piano’. E, nel 1964, i romani furono perfino costretti ad assistere alla devastazione del parco di Castel Fusano, o alla trasformazione in zona residenziale del recinto della tomba di Cecilia Metella. Ecco riassunte le vicende che hanno trasformato la capitale d’Italia in una città ostica e invivibile, in cui attraversarla per andare da un suo capo all’altro diviene un’impresa epica, dove le sue vecchie linee ferroviarie sotterranee hanno dovuto attendere, in media, 25–30 anni per essere realizzate e quelle nuove vengono generalmente considerate un ‘miraggio’ che andrà a vantaggio delle future generazioni. Come scrisse molti anni fa Luciano Bianciardi, è ormai necessario che i cittadini romani siano consapevoli del fatto che la loro meravigliosa città necessiti di una lucidità che discenda direttamente dalla ‘rabbia’, poiché siamo tutti stanchi di vedere una marea di denaro sprecata per la realizzazione di progetti che non vedono mai la luce, che finisce sempre nelle ‘tasche’ dei ‘soliti noti’ che cronicizzano i problemi anziché risolverli, che creano ogni volta un ‘mondo di mezzo’ di clientele politiche, funzionari corrotti, appalti truccati e ‘vecchie canaglie’ ripulite, rivestite e riabilitate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(4 dicembre 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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