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“Giustappunto!” di Vittorio Lussana: La lunga marcia della laicità (parte seconda: il Cinema)

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Vittorio Lussana 02di Vittorio Lussana twitter@vittoriolussana

Nel settore della produzione cinematografica, la ‘guerra’ tra cultura cattolica e laicità fu ancor più cruenta, poiché proprio sul cinema, in realtà, confidavano i sacerdoti preposti agli oratori parrocchiali disseminati nel nostro Paese. In Veneto e in Lombardia, in particolare, lo ‘schermo’ divenne il più comune alleato del campetto di calcio. Tuttavia, un conto era possedere una buona rete di distribuzione e grandi mezzi di proiezione, ben altro disporre in quantità sufficienti le pellicole da proiettare. E ciò perché le indicazioni del Centro cattolico cinematografico erano talmente perentorie da arrivare al punto di non risparmiare alcun genere di film. Vennero per esempio giudicati ‘pericolosi’ quei lavori che: a) contenevano o giustificavano, anche implicitamente, errori dogmatici e colpe morali come il divorzio, il duello, il suicidio, la maternità illegittima; b) mettevano in cattiva luce persone, istituzioni e cerimonie sacre e religiose; c) accreditavano princìpi antisociali o dannosi alla convivenza civile; d) contenevano scene immorali o gravemente provocanti, come scene di seduzione prolungate e suggestive, oppure nudità complete o quasi, anche se presentate in ‘siluetta’; e) proponevano danze che eccitavano passioni o mettevano in rilievo forme o movimenti indecenti. Lo sguardo dei giovani venne poi completamente ‘scotomizzato’ con la successiva preclusione di: 1) scene capaci di eccitare i sensi, come baci e abbracci prolungati; 2) scene, riviste e balli in abiti succinti, come quelle girate in locali notturni; 3) scene di svenimento; 4) motti salaci; 5) drammi, gialli e film polizieschi, in cui il delitto era messo in luce favorevolmente, oppure in cui si insegnava, indirettamente, l’arte del delitto (furti, rapine e assassinii) per cui la pellicola riusciva in quanto scuola di delinquenza; 6) scene brutali e violente atte a educare allo spirito di violenza. In buona sostanza, nelle sale parrocchiali risultò obiettivamente difficile proporre una programmazione solo ed esclusivamente ‘per tutti’ o ‘per tutti con riserva’. E si finì col dover ammettere anche dei film classificati come ‘per adulti’, pur subordinati ai ‘nulla osta’ della Commissione diocesana, poiché diversamente la programmazione e la stessa rotazione delle pellicole non avrebbe potuto essere soddisfatta dalla sola “produzione ammessa come lecita”. Ma proprio questo punto della cinematografia “ammessa come lecita” divenne il vero nervo scoperto della ‘presenza cristiana nella società’. Finanziariamente solide com’erano, nonché benvolute dal potere politico, soprattutto dopo che Giulio Andreotti si insediò alla presidenza dell’Ufficio centrale per la cinematografia (direttamente dipendente dalla presidenza del Consiglio dei ministri), le società di produzione cinematografica cattoliche dimostrarono di non possedere né il respiro culturale, né le capacità professionali necessarie a confezionare prodotti quanto meno dignitosi sotto il profilo artistico. E furono costrette ad assoldare veterani della macchina da presa o giovani registi emergenti, i quali offrirono le proprie competenze tecniche senza, peraltro, vendere l’anima: con la ‘Orbis’, per esempio, collaborò lungamente lo stesso Cesare Zavattini, padre del neorealismo italiano, insieme a Pietro Germi, Alessandro Blasetti e allo stesso Vittorio De Sica. Tuttavia, la ricerca di una sintesi tra intransigenza ecclesiastica e produzione religiosamente orientata ma pur sempre verosimile, finì col generare risultati addirittura grotteschi. Come capitò, per esempio, per il toccante ‘Fabiola’, tratto dall’omonimo romanzo del cardinale britannico Nicholas Patrick Wiseman, il quale fu ammesso alla visione solamente ‘per adulti’ poiché vi comparivano “nudità difficilmente eliminabili dall’ambientazione di una vicenda della Roma dei primi martiri cristiani”. Questi e numerosi altri ‘corto circuiti’ finirono solamente col confermare l’impressione che la tanto ricercata ‘presenza cristiana nella società’ fosse tanto forte sul piano degli apparati difensivi, quanto debole su quello delle attitudini creative, artistiche e propositive. E che, sotto la superficie di un’apparente uniformità, nel mondo cattolico covino, da sempre, sordi conflitti tra una gerarchia quasi esclusivamente preoccupata della vigilanza, dell’occultamento e della condanna, contro ‘schegge di laicità’ desiderose di svolgere un’attività in nome dell’elaborazione di nuovi linguaggi comunicativi. Ne fu la riprova ciò che accadde dopo che l’apposita commissione ministeriale negò il ‘nulla osta’ per la circolazione nelle sale cinematografiche al film ‘Gioventù perduta’, di Pietro Germi: per tutta risposta, 35 registi italiani inviarono una lettera sdegnata di protesta al sottosegretario Andreotti, notoriamente vicino ai prelati della Curia. Infatti, in calce a quel testo e alle denunce che esso conteneva (“ogni giorno che passa è un nuovo fatto, una nuova minaccia, un taglio al montaggio, un’osservazione sulla sceneggiatura, una modifica, un suggerimento, un sorvolamento, una telefonata…”) non facevano mostra di sé solo i nomi di Vittorio De Sica, Alberto Lattuada, Roberto Rossellini, Luigi Zampa, Luchino Visconti, Luigi Comencini, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini, ma anche le firme di Alessandro Blasetti, Mario Soldati (che aveva diretto per la ‘Orbis’ il cortometraggio: ‘Chi è Dio’?) e addirittura di Romolo Marcellini, il regista del leggendario ‘Pastor Angelicus’. Andreotti, tuttavia, non si intimidì e continuò imperterrito la sua politica di ‘punzecchiature’ alla produzione interna, di indulgenza verso gli esercenti che non applicavano le norme sulla proiezione obbligatoria di film italiani, di ricorso a tutte le possibili ‘serrature’ censorie tese a tutelare, presso l’opinione pubblica internazionale, l’immagine di un Paese deturpato dalle ‘calunnie’ dei neorealisti. Andreotti arrivò addirittura al punto di pretendere di insegnare il mestiere agli altri facendo pubblicare sulla rivista settimanale della Dc, ‘Libertas’, una sorta di breviario deontologico in forma di lettera aperta indirizzata a Vittorio De Sica, reo di ‘disfattismo’ per aver denigrato l’Italia con la pellicola ‘Umberto D.’. Quella pagina segnò uno dei momenti più bassi di una cultura cattolica che si è sempre rifiutata, ostinatamente, di voler indagare le movenze di fondo della società: “Se è vero che il male”, scrisse Andreotti, “si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che, se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di ‘Umberto D.’ è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua Patria, che è anche la Patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale. E’ stato detto che la cinematografia deve realisticamente configurarsi al vero, non rappresentando una società irreale, bugiarda e caramellata. Principio in sé accettevole per un certo tipo di produzione, ma sempre con un limite di equilibrio, di oggettività e di proporzioni, senza le quali ci si perde nelle vie disgregatrici dello scetticismo e della disperazione”. Nel riferimento alla sua pretesa di oggettività, Andreotti in pratica affermava di avere la verità ‘in tasca’: una superbia assurda, oltreché totalmente falsa, lontana intere galassie da ogni sano principio di libertà individuale, artistica e culturale. I sottosegretari succedutisi al pupillo di De Gasperi non si discostarono mai dalle linee maestre di un simile ‘testamento spirituale’. Così come non se ne discostò la commissione di censura, istituita successivamente, presso il ministero del Turismo e dello Spettacolo. A volerla ripercorrere, la storia delle mutilazioni, dei ritocchi e delle protesi a cui sono stati sottoposti soggetti e sceneggiature ha finito col produrre un’aneddotica spassosamente fosca e sinistramente esilarante: Aldo Vergano venne costretto a espungere, da ‘Il sole sorge ancora’, la sequenza di un personaggio che sfuggiva a una retata nazista sgattaiolando da un ‘bordello’ travestito da prete; il film ‘La passeggiata’, di Renato Rascel, rifacimento di una novella di Gogol che si conclude con un suicidio, venne corretto con un finale ‘edificante’, in cui il protagonista restituisce fiducia alla prostituta di cui si è innamorato attraverso un ‘pallosissimo’ predicozzo; da ‘Suor Letizia’, di Mario Camerini, venne amputata la scena in cui una monaca perdeva il ‘velo’ e un bambino con il quale ella stava giocando si stupisce di trovarsi di fronte a una donna. Ma l’aspetto più grave di tali vicende riguarda le idee cadute in abbandono, i progetti rinchiusi per sempre nel cassetto, le opere mai realizzate per la triste censura imposta a registi sommersi da innumerevoli intimidazioni ‘virtuiste’ e da produttori spaventati dalla prospettiva del disastro commerciale: allo stadio di ‘abbozzo incompiuto’ rimasero ‘Gli uomini del fiume’, di Carlo Lizzani e Felice Chilanti, che raccontava drammaticamente l’alluvione del 1951 in Polesine; ‘Noi che facciamo nascere il grano’, di Giuseppe De Santis e Corrado Alvaro, che trattava delle condizioni di vita dei contadini nei latifondi della Calabria; ‘Minatori’, di Massimo Mida e Carlo Cassola, che intendeva narrare le durissime giornate dei cavatori del grossetano; ‘Il prete bello’, di Luigi Zampa, tutto imperniato sul sottoproletariato colorito e ‘picaresco’ di una piccola città veneta. Che la capacità dei cattolici di far presa sull’immaginario collettivo e sociale attraverso il cinema dipendesse, ormai esclusivamente, dai crivelli dei loro poteri di veto era dimostrato dal fatto che la produzione ammessa come lecita veniva spesso ‘scavalcata’ da spettacoli popolari solo esteriormente in regola con i precetti della religione. Ad attirare un oceanico afflusso di pubblico, per esempio, furono i film di Raffaello Matarazzo – in particolare la trilogia composta da ‘Catene’, ‘Tormento’ e ‘Figli di nessuno’ – che in non pochi finali emanavano ‘odor di sagrestia’ e che, tuttavia, possedevano una struttura assai stratificata, in cui la preponderanza della musica e lo stile della recitazione richiamavano il melodramma ottocentesco, la frequenza degli intrighi, dei colpi di scena e delle ‘agnizioni’ era ricalcata sul romanzo d’appendice e i cui temi di fondo erano quelli di amore e morte, violenza e sangue, uniti a paure per colpe ancestrali, peccati originali, aborti, violenze subite, incesti, traumi incancellabili. Ma se le opere di Matarazzo fotografavano una società temporalmente immobile, scossa da pulsioni antropologiche più che sociali, umettata da un’irrazionalità folcloristica largamente diffusa ancora oggi, il cinema ‘neorealista’ seppe invece presentarsi come il tramite più robusto – e senza dubbio più accorato – della rivalutazione di un’Italia arcaica e popolana che il governo delle ‘camicie nere’ aveva cercato di dissimulare, piuttosto che soccorrere. Anche se i grandi maestri, da Roberto Rossellini a Luchino Visconti, si rifacevano a poetiche diametralmente diverse, tutti i loro film del ‘periodo d’oro’ del neorealismo erano accomunati dalla scoperta della gente di buon cuore che abitava le campagne e le periferie e che, negli anni della Resistenza e del dopoguerra, aveva saputo dar fondo a riserve di rettitudine sconosciute ai beneficiari dell’opulenza illusoria distribuita dal fascismo e ostentata nelle commedie di Mario Camerini. A prendere la parola sullo schermo erano infatti i dolcissimi parroci di borgata in ‘Roma città aperta’; i pescatori di una palude polesana raggiunta dalla guerra prima che dal progresso in ‘Paisà’; i ragazzini sottoproletari candidi e ingegnosi di ‘Sciuscià’ e di ‘Ladri di biciclette’; le maschere dolenti di una Sicilia petrosa e senza storia ne ‘La terra trema’; i pensionati e le ‘servette’ murati nello squallore delle loro camere in affitto in ‘Umberto D’. Si trattava, insomma, di un’umanità integra e generosa, che doveva essere sottratta al male del ‘moderno d’importazione’ dopo che era stata ‘guarita’ dall’ingannevole promessa dei telefoni bianchi, dei grandi magazzini e delle ‘mille lire al mese’.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(22 gennaio 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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