di Vanni Sgaravatti
Il mondo piatto, quello della globalizzazione, trasforma il progetto trascendente che richiede e dà senso all’impegno presente in virtù di un futuro da costruire, in una amministrazione del presente in cui il passato confluisce. È questa una metafora che ha rappresentato un modo di vedere le democrazie occidentali, come il punto di arrivo di un progresso che toglie, insieme alla perdita delle specificità culturali, il senso dello spazio e del tempo.
Il problema, però, è che, almeno a livello teorico, per noi la democrazia intesa come la migliore forma politica per la difesa dei diritti, l’uguaglianza delle opportunità dei progetti di vita è, al momento, un punto di arrivo. Se il nostro “politicamente corretto” inorridisce all’idea che noi promuoviamo il modello occidentale come punto di arrivo degli altri modelli è perché, in realtà, noi equipariamo i comportamenti e le decisioni collettive ai principi che dovrebbero ispirarli, ma che sono ben lontani da esserlo. Ma non perché tali principi hanno per noi la stessa valenza di altri modelli.
Le condizioni di vita occidentali, risultato dei nostri comportamenti e delle nostre decisioni collettive, sono sistematicamente fondati sullo sfruttamento, che tiene in piedi le opportunità ed il benessere di qualcuno a scapito di qualcun altro. E questo non tanto o non solo perché ci sono degli approfittatori sfruttatori, alla Musk, visto che in ogni sistema i pescicani più grandi trovano una nicchia in cui crescono a scapito di altri, ma perché il sistema di sviluppo è basato sull’asimmetria di potere, l’accumulazione delle risorse e la risposta a bisogni continuamente e fittiziamente alimentati.
È per questa totale e, soprattutto, sistematica incoerenza tra la sfera filosofico politica e la sfera economica che il pensiero democratico sociale, pur essendo collegato ai principi, ad esempio, alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non ci sembra un esempio virtuoso che dovrebbe essere seguito.
Ed è anche per questo carattere sistemico dello sfruttamento che la carità, quando non è una caratteristica di una relazione con l’altro, ma diventa un “ismo”, il caritatismo, non solo diventa una stampella a questa incoerenza tra le due sfere, nascondendone le contraddizioni sotto il tappeto, ma istituzionalizzando il rapporto tra donatore e bisognoso, impedisce di vedere il meccanismo di fondo che produce quelle differenze di categorie.
Ma questa è una vecchia storia e non è certo un nuovo pensiero. Quello che personalmente mi sorprende è il collegamento tra questa arcinota riflessione e l’abbaglio che non pochi continuano a prendere nel vedere le ragioni del degrado del progetto democratico occidentale e del suicidio della pace nella colpevole attribuzione di superiorità dei principi a cui crediamo. Un senso di colpa che, se male indirizzato, porta come minimo a quel relativismo culturale, invece che a concentrarsi nel ridurre lo scostamento tra quello che viene dichiarato e quanto viene praticato. Uno scostamento tra il dire e il fare che è sempre esistito, ma che sembra diventare la “cifra” dei nostri tempi, di una propaganda politica che, non potendo ammettere l’impotenza, inganna, altrettanto sistematicamente sé stessa.
A questa soggettiva e presunta superiorità va dato il significato giusto. Ad esempio, l’uguaglianza di genere per noi è un principio non negoziabile, perché chi non la dichiara come un valore assume una morale che per noi è inferiore e che, in base a questa scala, dovrebbe essere abbandonata. E questo indipendentemente dal fatto che chi la pratica è lo stesso paese che in termini di femminicidi non sta meglio di altri. Confermare la soggettiva e contingente superiorità dei nostri principi, non significa non rispettare altre morali, ma nei limiti in cui le prassi collettive altrui da queste ispirate (si pensi alla formazione all’uso delle armi per la difesa della patria nelle scuole di base russe) non restringono la nostra libertà. E, qualora questo non accadesse, la necessaria tolleranza richiede che ci si metta in gioco nella relazione con l’altro, mettendosi nei suoi panni, consapevole, però, di quali siano i nostri panni.
È stato dopo la fine della guerra fredda che in Occidente si è diffusa la strana sensazione che fosse finita la storia fondata sul rapporto amico / nemico e che si aprisse un mondo dove la grande politica e le visioni del mondo da costruire dovevano lasciare spazio alla governance e alla tecnica efficiente che la potesse regolare. L’ambito giuridico diventava, quindi, una regolazione burocratica dei rapporti nella sfera economica, così come emergeva dalle transazioni spontanee, emarginando la politica, che, fino a quel momento, era risultata incapace di contenere l’irrazionalità delle pressioni popolari.
Ma la burocrazia, e gli agenti artificiali che la esprimono, pervadono e costruiscono la cognizione della nostra realtà, in cui i principi emergono dai comportamenti e dalle decisioni, ma non sono più dei riferimenti per la sfera delle concrete relazioni interne e internazionali. Allora, la maggior parte delle regole burocratiche, dettate dalle necessità economiche e della gestione delle risorse scarse vengono percepite, a livello operativo, come istruzioni piovute dal cielo. Un modo di percepire la burocrazia che non viene intaccata dalla consapevolezza di cittadini e pensatori che così non dovrebbe essere, perché l’importante, per il funzionamento di questo sistema, è che il pensiero critico stia fuori dai comportamenti e dalle decisioni adottati, quando le persone assumono precisi ruoli riconosciuti dal sistema.
La governance globale e la corrispondente burocrazia hanno finito, quindi, per rappresentare l’amministrazione del presente, punto di arrivo di un passato, che nei tempi recenti è stato per noi “il secolo breve”, senza che ci si accorgesse che gli interlocutori dei poteri sovranazionali che emergevano facevano riferimento a pezzi di poteri amministrativi statali, bypassando il coordinamento politico, rinforzando quella frammentazione di livelli del vecchio ordine sovranista nazionale. E anche le critiche e le proteste, espressione del disagio di questo periodo, sono compatibili con l’amministrazione efficiente del presente, a patto che stiano dentro i confini delle iniziative culturali, da praticare nei momenti del dopo lavoro, trasformandoci in ottimi consumatori di prodotti alternativi di arte varia, dal cinema, alla letteratura al teatro. Di protesta o sperimentale, ci mancherebbe.
E sono compatibili con questo sistema anche la protesta e la critica espressa in qualche seminario, pieno di pensatori con nessun potere decisionale, a cui invitare decisori che, dal palco, dichiarano di essere delusi, nello stesso modo di coloro che le decisioni le subiscono, lasciando alla platea la sensazione, che, alla testa del nostro treno, non ci sia nessuno o al massimo ci stiano quei personaggi televisivi, diavoli per qualcuno, salvatori demiurghi per qualcun altro. Questo mondo di personaggi e di ruoli, più che di umani, è una buona ragione per trovare l’umanità e la sincerità tra i più fragili. Non perché i poveri sono benedetti dal Signore o perché sono più aperti degli altri, unti dall’unguento della bontà umana, ma perché essendo fuori dal sistema, non sono imprigionati da ruoli frammentati e frammentanti.
Il trucco che impedisce che le proteste travalichino verso il cambiamento è l’impermeabilità dei livelli gerarchico-sociali rispetto alle informazioni che determinano le diverse cognizioni della realtà. Il gioco dei livelli fa in modo che le persone nei livelli più alti tendano a nascondere la propria impotenza, per non evidenziare che il privilegio sociale di quel ruolo su cui magari si è costruita una carriera, in realtà, non costituisce un vero potere. Una strutturazione organizzativa sociale che permette di disporre di capri espiatori, quando qualcosa si incrina, di nascondere le responsabilità di promesse mancate. E i richiedenti nei livelli più bassi si lamentano o a volte non si capacitano delle mancate risposte, immaginando che queste siano dovute al consapevole rifiuto e al relativo complotto pianificato dal clan o dalla classe di appartenenza del superiore da cui si aspetterebbero decisioni differenti. E questo, mentre il destinatario di queste richieste, nel livello superiore, si ritiene, al contrario, incompreso, vittima anch’esso del sistema e che lo induce a rifugiarsi nelle relazioni corporative dei pari livello.
Ed è tramite questo meccanismo, in cui il sistema burocratico e artificiale ci appare come la nostra seconda natura, che barattiamo la nostra libertà di scelta e della relativa potenza del nostro essere, in cambio della deresponsabilizzazione sugli effetti.
Inoltre, la mancanza di una verità assoluta, dopo “la morte di Dio e di Marx”, la perdita di colpi dell’illuminismo e la necessità di accettare l’incertezza e l’impossibilità di un controllo sul futuro ha promosso un relativismo culturale e un’accettazione di tutte le visioni, scambiando la tolleranza che promuove la sopravvivenza dell’altro soggetto e dell’altro pensiero, per un pratico compromesso su tutti gli aspetti, che non dovrebbe essere una conseguenza di questa tolleranza.
È in questa percezione dell’uniformità delle visioni che emerge la governance di un mondo che lo amministra per come è, in cui il cambiamento risulta sempre utopistico e il desiderio sempre estraneo al mondo della realtà, semmai esiliato nel mondo dei sogni o reso artificiale nella soddisfazione e gratificazioni che il sistema stesso produce.
Una governance che richiede continui compromessi tra visioni, con la conseguenza di vivere in un melting pot grigio e senz’anima, che ha fatto emergere, per contrasto, la voglia di ribellarsi, attraverso il dilagare di comportamenti dettati dal sentimento dell’irrazionale, unico modo per sfuggire alla trappola dell’efficienza fine a sé stessa.
(14 maggio 2025)
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