di Vanni Sgaravatti
Il pensiero neoliberale e dei conservatori sostiene la legittimità morale del reddito ricavato dai mercati in concorrenza perfetta, a cui quasi naturalmente tenderebbero. Ma sappiamo come le regolamentazioni e l’equità distributiva determini e modifichi salari e prezzi da cui deriva il reddito e quindi questo significa che non è automaticamente moralmente giusto il reddito ricavato, ma dipende proprio dalle scelte sulle regolamentazioni e sul modo di intendere i diritti di proprietà, a loro volta determinati dalla cultura e dai valori extraeconomici che caratterizzano una specifica comunità, in una specifica epoca storica.
Se il reddito fosse moralmente legittimo in assoluto, lo sarebbero anche i grandi patrimoni e allora lo sarebbe anche la povertà. Ed è da questo ragionamento di filosofia morale che deriva o consegue dall’idea che il povero è in quella condizione, perché se lo è meritato. Non è stato abbastanza abile, abbastanza frugale, né ha avuto la capacità di rischiare, investendo per il futuro. Ne consegue, anche in una prospettiva storica, che le ricchezze ereditate, rispetto a questa morale, posizioni di rendita comprese, sarebbero moralmente legittime, perché tramandano quel surplus di capacità, frugalità e propensione al rischio dei propri antenati, con buona pace del detto di Balzac: “dietro ogni fortuna c’è un delitto”.
È noto, invece, come i diritti di proprietà sono serviti per proteggere le ricchezze.
La Rivoluzione francese ha cambiato il mondo antico, ha sovvertito un ordine dominante, a favore non dei poveri, ma della filosofia proprietarista, così come più di un secolo prima la rivoluzione di Cromwell in Inghilterra portò la democrazia, ma anche una redistribuzione dei poteri non a favore dei poveri, ma della classe nobile rispetto a quella monarchica.
Se, invece, la nascita di fortune patrimoniali si basa sulla abilità di sfruttare posizioni di forza, potere di sfruttamento, come l’esproprio dei beni comuni in Inghilterra in passato o le asimmetrie informative e di potere nei mercati nei tempi moderni, la trasmissione famigliare dei patrimoni non sarebbe moralmente giustificata e la redistribuzione tramite tassazione progressiva diventa un po’ come ridare i “soldi rubati”. Basti pensare che fino agli anni ’60 Haiti continuò a pagare alla Francia le rate per ripagare un debito che si forò quando fu abolita la schiavitù e lo Stato francese risarcì i proprietari di schiavi per l’esproprio dei loro beni (gli schiavi).
Per non parlare degli acquisti di terre che furono stipulati con nativi americani, che furono considerati validi dalla cultura dei coloni dell’epoca, ma si basavano su un fraintendimento: per i nativi la terra, come l’aria, non era vendibile nel senso che diamo oggi alla proprietà, ma significava per loro cedere il diritto di usarla. L’elenco degli esempi di concentrazione dei redditi derivanti dallo sfruttamento del potere nel passato sarebbe terribilmente lungo, dallo schiavismo all’imposizione del commercio e vendita dell’oppio in Cina.
Questo non significa che si possano riprendere i patrimoni con un atto di sequestro pubblico, sulla base dell’ingiusta sottrazione di patrimoni e terreni ad altri nella storia: chi erano i primi proprietari, quali legami ci sono tra questi e i loro eredi? Impossibile stabilirlo.
Ma dal momento che, a parte gli psicopatici, gli uomini sono soggetti morali nel senso che necessitano di una giustificazione morale per i comportamenti: la pulizia etnica per ripulire il mondo di Hitler, la civilizzazione degli indigeni, il giusto premio che Dio riconosce ai credenti, soprattutto calvinisti; allora rivedere le giustificazioni serve a togliere una presunta patente di moralità alle attuali disuguaglianze e a non interpretarle come una caratteristica naturale piovuta dal cielo. E neppure dipendono solo da un errore di politica economica contingente. Diciamo, piuttosto, che è stata un’eccezione la politica redistributiva applicata in occidente nei trent’anni ruggenti post Seconda guerra mondiale.
La strada del capitalismo, dopo la crisi del petrolio degli anni ’70, ha ripreso lo storico tracciato, dello sfruttamento anteguerra, fotografando, di fatto, la distribuzione di vantaggi meritocratici che si è venuta a creare.
Se, dal punto di vista dell’efficienza economica, attaccare solo le rendite di posizione dei grandi patrimoni a favore di un sistema meritocratico, sembra un modo, probabilmente utopistico, per cercare di correggere la rotta verso situazioni di disuguaglianza sostenibili, da un punto di vista morale, anche la stessa meritocrazia se lasciata alla logica dei mercati, tende a fissare la situazione di privilegi, derivante, ad esempio, dalla scelta della famiglia giusta alla nascita. È noto, infatti, che dove c’è benessere e istruzione, la posizione di privilegio sociale tende ad essere riprodotta, alla faccia dell’ascensore sociale del sogno americano (ormai un pallido ricordo).
È importante, quindi, concentrarsi nei diversi modi di intendere i diritti di proprietà anche nei tempi moderni, invece di darli generalmente per scontati. Almeno se si vuole contestare la visione della destra conservatrice, la quale sostiene che lo Stato dovrebbe intervenire solo o quasi esclusivamente per proteggere proprio i diritti di proprietà, lasciando ai liberi mercati di fare il resto.
Ad esempio, in Europa esiste il reato di abuso di posizione dominante, mentre in America questo non esiste. E ciò significa lasciare la possibilità a chi detiene posizioni di monopolio (le grandi piattaforme tecnologiche, le case farmaceutiche) di sfruttare quella posizione a piacimento. E quindi sono le due diverse visioni extraeconomiche sui diritti di proprietà, politicamente determinate, che influenzano la politica economica e gli effetti sui mercati (e gran parte delle tensione odierne tra Trump e UE, ndr).
In America, ad esempio, l’insulina prodotta da poche aziende costa dieci volte più che in Europa, proprio per quella posizione dominante. La proprietà della terra in America comporta la proprietà anche del sottosuolo e la possibilità di prelevare qualsiasi risorsa senza criteri di buon utilizzo di beni pubblici. Giusto per fare un richiamo teorico, i sovraprofitti derivanti da posizioni dominanti potrebbero essere misurati dalla quota aggiuntiva di un prezzo rispetto al costo marginale del prodotto, mentre in una società equa il contributo marginale individuale dovrebbe essere equivalente al contributo marginale sociale. La regolamentazione, quindi, per un pensiero progressista che considera la legittimità sociale della redistribuzione del reddito (tasse progressive e non flat tax, per intenderci) dovrebbe essere utilizzata per impedire le posizioni dominanti, e per correggere disuguaglianze ereditate e non solo per promuovere ammortizzatori sociali.
La critica a questa imposizione è stata fin troppo ovvia: così la società non gode del “trickle down”, cioè le briciole che ricadono sui poveri se la torta cresce per merito dei più forti e la maggiore innovazione se si premiano i migliori indipendentemente dalla fortuna che hanno avuto ad esserlo.
Ma, mi chiedo: i risultati di questa impostazione non li abbiamo sperimentati fin dagli anni ’80? Non è evidente che questa teoria è fallita, sia nella redistribuzione delle briciole, ma anche dal punto di vista dell’efficienza della promozione dei migliori? È una domanda però che non va posta a chi, contando proprio sull’ascensore sociale degli anni passati, ora si ritrova tra i migliori: i tacchini non si mettono nel forno da soli.
Inoltre, oggi, l’abilità imprenditoriale, quella che traccia la strada del nuovo capitalismo di stato, è valutata proprio sulla capacità di creare rendite di posizioni monopolistiche. Sono poi gli alti costi fissi che creano posizioni monopolistiche, come quelli che caratterizzano il business delle piattaforme tecnologiche informative (Fb, Google, ecc.) e costi alti di marketing disincentivano entrare e uscire da mercati monopolistici. Il prezzo su cui costruire un business plan per il nuovo entrante non è quello attuale, ma quello ribassato successivamente all’entrata del nuovo competitore, mentre l’attuale monopolista prometterebbe una guerra dei prezzi per scoraggiare l’entrata. Il monopolista, una volta ottenuta la posizione dominante, conosce i clienti quelli che possono pagare di più e opera prezzi distorsivi lontani dall’efficienza dei mercati concorrenziali perfetti. Alla faccia di quelle azioni compensatorie alle posizioni monopoliste, che secondo qualche economista neoliberista, sosteneva sarebbero scattate automaticamente.
Nei primi anni di questo XXI secolo, contrariamente alle predizioni dei primi neoliberisti, non solo il pubblico è intervenuto a piene mani per assicurare con la forza il rispetto dei diritti di proprietà e di investimento dei più forti, ma ha facilitato l’accesso pieno e sempre maggiora al potere politico da parte di chi detiene il potere economico. La Russia e la Cina hanno fatto scuola, venendo da un altro percorso, dando via ad un grande capitalismo di stato e aprendo la strada all’America trumpiana che ha così eliminato ogni pur fragile separazione democratica tra le due sfere. Una separazione che facilitava l’esercizio di contropoteri, come un altro modo per combattere posizioni dominanti. Il risultato di questo lento avvicinamento delle due sfere economiche e politiche ha avuto come effetto anche il calo deli iscritti al sindacato. In USA sono passati dal 35% degli anni ’50 al 6% attuali. Ma ha comportato anche dettagli importanti, conseguenze della visione neoliberista: in America i contratti (quelli che secondo la destra andrebbero difesi) obbligano, in caso di controversie, ad escludere lo Stato e affidarsi ad arbitrati, in cui l’azienda ha avvocati pagati profumatamente. Si aggiunga, che la Corte suprema ha messo paletti sul ricorso alle class action, come modo per bypassare la regola dell’arbitrato, che possono affrontare solo le persone che se lo possono permettere.
La globalizzazione in economia, proprio quella che ha assicurato posizioni monopolistiche tecnologiche nel mondo, ha permesso di abbassare i salari, mentre la concentrazione di potere monopolistico ha permesso di aumentare i prezzi e questo ha indotto le persone a lavorare di più.
Ma, di chi è colpa? Scarsa moralità e inefficacia dei mercati lasciati liberi di autoregolarsi e dei protagonisti che vi operano (secondo gli ostinati progressisti) oppure dei burocrati che cercano di approfittare della crescita del pil per potere distribuire briciole più sostanziose, con il supporto di ammortizzatori sociali (secondo la destra conservatrice)? Ogni propaganda narrativa serve a creare e indurre consenso: Donald Trump era orgoglioso di non avere pagato le tasse, considerate un limite insopportabile e coercitivo, derivante dalla eccessiva intromissione dello Stato negli affari privati, richiamando quel presunto spirito americano di frontiera. Ma dimenticava così propagandando che lo Stato delle regole è anche una sorta di socio operativo che ha condiviso il rischio con gli imprenditori privati, come è successo per la Silicon Valley, erroneamente presa ad esempio come luogo di innovazione imprenditoriale privata (chi erano i committenti dei primi microchip, dei computer, ecc.?). Inoltre, la favola delle tasse come forma di coercizione statale viene giustificata dalla storia tipicamente americana dell’uomo che si fa da solo, dimenticando che i padri fondatori americani avevano detto che la tassazione senza rappresentanza era ingiusta, ma non avevano mai detto che erano contrari a tassare i ricchi.
Una soluzione per uscire dalla crisi e dalla disuguaglianza non è, quindi, quella che stanno portando avanti i trumpiani, una maggiore deregulation e una negoziazione pervasiva sulla base di chi ha più carte da giocare, ma potrebbe essere una migliore e maggiore regolazione diretta per evitare lo sfruttamento e, quindi adattando la burocrazia, non come meccanismo algoritmico al di sopra di noi, ma come un’espressione attuativa di una politica più umana e, soprattutto, condivisa.
In teoria, è la democrazia, con la separazione dei poteri politici ed economici e una magistratura indipendente che presidia le regole, oltre ad una relativamente più efficace, lotta alla corruzione che potrebbe dare certezze ai mercati, e che potrebbe assicurare questa soluzione.
La distanza delle posizioni non potrebbe essere più netta ed i conflitti che ne derivano e ne deriveranno sempre più potenti. I famosi tacchini che non si mettono nel forno da soli, cioè, in questo caso, i plutocrati, che non avendo una visione sociale regolativa, non possono che difendere il proprio potere, utilizzano le narrazioni propagandistiche per orientare il dito della disillusione, dell’amarezza e del disagio verso l’avversario, il freddo burocrate, intellettuale che così facendo si è distaccato dal sentire della gente, ben rappresentato dai pifferai magici.
Fanno campagna dando un nome al politico a cui identificarsi che promette a tutti di poter seguire la sua sorte, al di là della disumana burocrazia, poi per mantenere il potere, con la propaganda tenderanno, come sempre è successo nella storia a trovare sempre un nemico esterno e, quindi, esponendo il mondo a sempre nuovi potenziali conflitti.
Il caso della guerra in Ucraina e della derivante crisi economica e del petrolio è un esempio di interpretazioni narrative propagandistiche, alternative: opposte, inconciliabili. Attribuiamo la colpa dei costi energetici all’ostinazione di chi difende (o crede di difendere) la propria libertà, mettendo a rischio la vita propria e dei propri figli oppure su chi ha mantenuta bassa la produzione di petrolio, per mantenere alto il prezzo e godere di sovraprofitti di guerra?
Nel secondo caso, non è la guerra la politica dei prezzi alti, o non solo, ma la politica di sfruttamento delle posizioni di potere in quelle condizioni.
Come ho tentato di raccontare, non esiste una giustificazione morale di fondo all’esistenza delle disuguaglianze economiche, ma queste dipendono dalla politica e dai trade-off che si scelgono tra le diverse libertà o diverse coercizioni, e non da condizioni sociali immanenti o naturali, a cui le persone di buona volontà devono trovare delle pezze per “carità cristiana” e mettere in pace la propria coscienza.
(12 aprile 2025)
©gaiaitalia.com 2025 – diritti riservati, riproduzione vietata
Iscrivetevi alla nostra newsletter (saremo molto rispettosi, non più di due invii al mese)