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Gianfranco Fini, ovvero: quando l’intelligenza politica diventa un problema

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di Vittorio Lussana

L’ex presidente della Camera, Gianfranco Fini, è stato condannato a 2 anni e 8 mesi nel processo legato all’acquisto di un appartamento a Montecarlo, per “concorso morale in riciclaggio”. Lo ha stabilito il Tribunale di Roma, che insieme al leader di Alleanza Nazionale ha condannato anche la compagna, Elisabetta Tulliani, a 5 anni, il cognato Giancarlo a 6 anni e il suocero, Sergio, a 5 anni di reclusione. Al centro della vicenda c’è questa famosa casa a Montecarlo, lasciata in eredità al Partito politico di Alleanza nazionale dalla contessa Annamaria Colleoni, acquistata in seguito da Giancarlo Tulliani attraverso una società off-shore.

Si tratta, con piena evidenza, del classico servizietto predisposto da alcuni legali molto esperti in materia, che hanno organizzato una sorta di vendetta contro il leader di An, confidando su una non piena conoscenza della materia giurisprudenziale che regola questo tipo di truffe. E’ Gianfranco Fini in persona a confermarlo: “Quando ho dato l’ok alla vendita non sapevo chi fosse l’acquirente: non mi è ben chiaro in cosa consista il reato che avrei commesso”.

Motivo della rappresaglia? Il fatto che Gianfranco Fini avesse tradito la famiglia, che pur non essendo di stampo mafioso, regolava molti rapporti politici in base a una visione feudale dei rapporti di forza, che non poteva esser messa in discussione. La vera colpa di Fini, infatti, è un’altra: stava per attuare una sorta di scavalcamento a sinistra dell’intero Popolo delle Libertà, per proporsi come nuovo interlocutore credibile per tutto il centrodestra, riposizionando il Pdl su una frontiera laico-cattolica di ispirazione sturziana: una nuova Dc, tanto per intenderci.

L’operazione era filosoficamente corretta, in termini di scienza della politica. Anche essendo una buona parte di Alleanza Nazionale poco consapevole della manovra, così come oggi un intero pezzo di Fratelli d’Italia dimostra un bagaglio di conoscenze alquanto antiquato. Tuttavia, Gianfranco Fini era credibile e aveva le carte in regola, assai più di altri, per approcciare il tentativo: questo è quanto ti può accadere nel mondo politico italiano se si possiede un “pensiero alternativo” o si vuole rendersi autonomi rispetto a una condizione di subalternità.

Si tratta di un problema vero del centrodestra italiano, ben presente anche ai giorni nostri: si deve obbedire per forza a un capo, anche quando costui non intenda regolarsi sulle norme giuridiche vigenti oppure calcolando le distinte fasi politiche, ma in base al danaro o sui vari accordi finanziari che possono intrecciarsi tra i Partiti. I quali, nella gestione delle loro Tesorerie, sono assai poco trasparenti e andrebbero riformati nel loro ruolo di collettori del consenso democratico.

Eccoci dunque giunti al vero problema di fondo: una politica rimasta ai vecchi criteri feudali, che si regola attraverso liturgie padronali o leggi di padrinaggio. Veri e propri ricatti, in buona sostanza. In caso di mancato rispetto degli accordi presi, può essere innescata una ritorsione, che giornalisticamente viene definita macchina del fango. Un meccanismo basato su un solo e unico ricatto: “Se continui a criticare la gestione politica attuale tiriamo fuori quanto i tuoi stanno combinando, dimostrando a tutti che non sei migliore di noi”.

Gianfranco Fini rimane, politicamente parlando, il vero artefice del tentativo della destra italiana di emanciparsi da molte incrostazioni ideologiche del passato. E ha pagato un duro prezzo, per questo. Noi ne siamo convinti: eravamo in procinto di giungere, finalmente, verso una democrazia più moderna e matura, basata sul dialogo e sull’alternanza di potere tra maggioranza e opposizione. La cosa è stata impedita, purtroppo. E molti italiani, ancora oggi, non hanno compreso i veri termini della diatriba, molto legata al dominio berlusconiano degli anni passati. La questione delle destre italiane, infatti, è sempre la stessa: non è possibile anticipare i tempi di un suo rinnovamento interno. Già all’epoca della caduta del fascismo andò così: fin quando non ci ritrovammo con la Sicilia invasa e con lo scalo di San Lorenzo bombardato, nessuno era disposto ad assumersi alcuna responsabilità in merito ai propri errori e disastri. E quando le cose cominciarono a mettersi in moto, era ormai troppo tardi. E’ questa la vera arretratezza della destra italiana. Ancora oggi, essa stenta a comprendere le fasi di declino dei propri leader. E chi cerca di condizionare la situazione anticipandone le ‘mosse’, al fine di correre in tempo ai ripari, viene considerato una sorta di traditore in base a una visione schematica e immobilista della politica stessa, che tende a mantenere ancorata la propria mentalità a retaggi obsoleti o ampiamente superati dalla realtà.

E’ come nel reality televisivo intitolato Sepolti vivi: una destra che non butta via niente, nemmeno il razzismo, è costretta a convivere in mezzo a un mucchio di cianfrusaglie ideologiche del passato. Un processo di implosione che Gianfranco Fini, uomo d’intelligenza superiore – dobbiamo dirlo – aveva compreso perfettamente, prima di tutti gli altri.

Trattasi di abitudini antiche. Almeno quanto la crocifissione.

 

 

(8 maggio 2024)

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