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Le contraddizioni nella diffusione dei principi della democrazia occidentale

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di Vanni Sgaravatti

Per comprendere la psicologia occidentale dobbiamo considerare il mondo individualistico che cominciò a svilupparsi in alcune parti d’Europa durante il secondo millennio d.C.; come viene illustrato da Heinrich in “Weird, la mentalità occidentale e il futuro del mondo”, per comprendere alcuni modelli psicologici rilevanti creati da tale processo ci si può concentrare su due pacchetti correlati: uno centrato su come pensiamo al tempo, al lavoro, alla puntualità e alla pazienza e un secondo gruppo che comprende le personalità, le disposizioni personali e la centralità dell’io unitario.

Nel medioevo un numero crescente di comunità europee cominciò ad adattare il modo in cui pensavano al tempo e al denaro, insieme alle loro sensazioni riguardo alla manodopera, al lavoro e all’efficienza. Con il declino dell’importanza delle relazioni delle istituzioni basate sulla parentela divenne sempre più importante coltivare una reputazione personale di duro lavoro, efficienza, autocontrollo, pazienza e puntualità.

Le organizzazioni volontarie come gilde, monasteri e città idearono incentivi per promuovere questi attributi e inculcarle nei membri dell’ordine per selezionare, definire la loro appartenenza e distinguersi da altri gruppi. Le persone finirono sempre più per credere che a dio importassero queste caratteristiche o quantomeno che possederle indicasse il favore di dio. Questo sfociò nelle fedi protestanti. Con la crescita delle città, l’espansione dei mercati e la proliferazione delle associazioni volontarie le persone selezionarono sempre di più le nicchie sociali e le specializzazioni occupazionali più adatte ai propri attributi. Poi modellarono e affinarono ulteriormente queste disposizioni, talenti e abilità grezzi per riempire al meglio le nicchie da loro scelte. Inoltre, nello spiegare parte di queste variazioni psicologiche si dovrebbe considerare l’influenza e l’interazione delle istituzioni basati sulla parentela, i mercati impersonali, la guerra, la competizione intergruppo benigna e la specializzazione occupazionale.

Nella nascente cultura e psicologia occidentale gli individui, percepiti come tali, non avevano in pratica alcun potere di affermare i propri diritti, ma quando si riunivano in gruppi con interessi comuni potevano esercitare una vera influenza. Come sostiene Heinrich, questi cambiamenti sociali e politici furono sostenuti dai primi sviluppi del diritto canonico che gettarono le basi del moderno diritto societario. Il diritto canonico affermava che i capi o i rappresentanti nominati dalle corporazioni associazioni volontarie dovevano ottenere il consenso dei loro membri prima di intraprendere azioni importanti. Quest’idea si trasforma in un principio costituzionale riassunto nella massima romana: “ciò che riguarda tutti dovrebbe essere considerato e approvato da tutti”.

I giuristi medievali europei, tuttavia, arrivarono a nuovi principi reinterpretando inconsapevolmente ciò che credevano di vedere nel diritto romano. L’Impero Romano di certo non pensava di aver bisogno del consenso dei governati: la citazione era relativa a un contesto è un caso specifico. Tuttavia, filtrata da un prisma psicologico occidentale questa massima comincia a sembrare di buon senso quasi una verità ovvia. Poiché giuristi istruiti nelle università avevano tutti una buona base di diritto canonico questi altri aspetti del diritto ecclesiastico fornirono il punto di partenza dei successivi sviluppi del diritto societario e del governo costituzionale in Europa e oltre. Socialmente le pratiche, come il voto, la costruzione del consenso non hanno invece funzionato particolarmente bene quando sovrapposte a forti istituzioni basate sulla parentela. Per capire perché si consideri questa descrizione dello scrittore di origine afghana Tamian Ansary, riportata sempre da Henrich nel libro Weird:

Ma mi tornano sempre in mente le lezioni tenute in Afghanistan dopo la fuga dei talebani. In tutto il paese il popolo scelse dei delegati che lo rappresentassero in un incontro nazionale organizzato dagli Stati Uniti per formare il nuovo governo democratico, con tanto di Parlamento, costituzione, presidente gabinetto. Incontrai un uomo che disse di aver votato alle elezioni. Non riuscivo a immaginarmelo all’interno di una cabina elettorale, dal momento che assomigliava a uno dei tanti contadini che avevo conosciuto nella mia infanzia: camicia lunga, pantaloni larghi, turbante barba. Per cui gli chiesi per favore di spiegarmi il processo elettorale: come funzionava? Beh, disse, un paio di signori sono venuti dalla città con dei fogli di carta e ci hanno spiegato che dovevamo farci dei segni sopra e noi abbiamo ascoltato educatamente perché erano venuti da lontano e non volevamo apparire scortesi, ma non avevamo bisogno che quei tipi di città ci dicessero per chi votare. Mettemmo i segni dove ci chiesero loro, ma sapevamo che ci avrebbe rappresentato: Agha-i-Sayaf, ovviamente. E come avete scelto Sayaf? Chiesi. Scelto? Signore! Cosa intende? La sua famiglia vive qui dai tempi di dost Mohammed Khan se non da prima. Sapevate che il marito di mia sorella ha un cugino che è sposato con la cognata di Sayaf? È uno dei nostri.”

 

Queste storie richiamano un principio, talvolta diventato uno slogan: non si esporta la democrazia occidentale con la forza. A maggior ragione nell’imparare le diversità della psicologia occidentale derivante dall’evoluzione storica e antropologica viene da condividere questo principio di fondo. La contraddizione è che chi lo esprime spesso lo fa perché lo pensa in coerenza con il rispetto della autodeterminazione dei popoli in continuità con la autodeterminazione della volontà degli individui. Peccato che spesso le culture alla base di forme di governo non democratiche non hanno lo stesso concetto di volontà individuale che abbiamo noi. Quindi non volendo esportare la democrazia, rispetteremo, perciò, la volontà individuale di chi, però, pensa che non abbia senso esprimerla. Nella nostra cultura dibattiamo spesso della democrazia imperfetta perché i media influenzano le “coscienze” (sempre individuali), ma, contemporaneamente, alcuni sostengono che vanno rispettati i pareri dei singoli anche in quelle culture non democratiche dove il parere dei singoli non ha rilevanza, perché, comunque, quello è il mondo che dicono di volere.

Non sto contestando il principio di non esportare con la forza della democrazia, sto solo rendendomi conto delle contraddizioni che, tra l’altro, proprio noi occidentali, dotati di pensiero analitico, abbiamo sempre l’illusione, ma anche l’intima esigenza, di sbrogliare a favore di un pensiero lineare, contrariamente proprio al pensiero più olistico di altre culture (ed ecco un’altra contraddizione). Noi nutriamo un senso di colpa per le nostre incoerenze, ad esempio, se prendiamo posizione attiva contro l’aggressione Russa e ci sentiamo in difetto per non averlo fatto in altre occasioni. E questo lo viviamo nei continui conflitti e contenziosi con paesi di culture, in cui l’incoerenza non è profondamente un disvalore, ma un segno di flessibilità, perché la coerenza, in quelle culture, è ricercata nel mantenere lo stesso comportamento nel tempo, ma solo nei confronti dello stesso target e non con target differenti, cioè: è onorevole comportarsi in modo diverso con i famigliari, con gli amici, con gli sconosciuti.

Insomma: anche sotto questo cielo, le contraddizioni regnano incontrastate, nonostante tutti i nostri sforzi per non vederle.

 

(23 marzo 2022)

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