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Quel democristiano di Matteo Renzi

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di Marco Biondi #Lopinione twitter@gaiaitaliacom #Politica

 

La comparsa sulla scena politica di Matteo Renzi è stata, con le dovute proporzioni, un terremoto nello scenario politico del nostro Paese. Un terremoto che ha scosso situazioni incancrenite da anni e che, per la sinistra italiana, risalgono agli anni del PCI.

Infatti, il PD che ha “conquistato” Matteo Renzi era la fusione tra l’esperienza post democristiana della Margherita e quella del vecchio PCI, con gli apparati di partito che per buona parte erano quelli ex comunisti. Quindi un territorio presidiato dai circoli e dalla CGIL, con le vecchie strutture risalenti agli anni 70/80, ma con un elettorato che, nelle intenzioni, doveva spaziare dai vecchi democratici di sinistra e finire ai vecchi comunisti.

Quando Matteo Renzi decise di presentarsi alle primarie, sapeva benissimo che sarebbe stato in grado, in poco tempo, di prendersi la guida del Partito, questo grazie alle regole che lo stesso, ai tempi di Veltroni, si era dato quando si immaginava potesse davvero nascere un “Partito Democratico” all’Americana. E sapeva che avrebbe avuto l’investitura popolare, quella degli elettori di centro-sinistra che avevano desiderio e voglia di ottenere, attraverso un partito riformista, il progresso nell’organizzazione e semplificazione dello Stato, lo sviluppo dei diritti civili e una politica economica al passo con le esigenze del terzo millennio. Il PD di Renzi era quindi diventato finalmente quel partito riformista che il nostro Paese non aveva mai avuto, con la possibilità di liberarsi dei retaggi post comunisti.

La realtà dei fatti invece ci ha consegnato una resistenza al cambiamento che è venuta proprio dai vecchi comunisti, quelli delle sezioni con cariche elettive frutto di spartizioni e compromessi, ma, soprattutto, da quegli elettori che non riuscivano proprio a digerire di essere in un partito di governo. Loro che per decenni hanno manifestato all’opposizione contro il capitalismo ed il liberismo, anche nei pochi anni nei quali il loro partito era al governo.

E opposizione è stata, a partire dalle riforme costituzionali, anche al PD di Renzi, accusato da tanti di essere lo scout democristiano che per anni loro avevano demonizzato. Adesso che, almeno momentaneamente, la guida del partito è tornata tra le mani del vecchio establishment, si sentono rassicurati e guardano con rinnovata fiducia al normalizzatore Zingaretti. Quello che parla a tutti e non litiga con nessuno.

Io di certo non lo demonizzo. La “vecchia sinistra” ha ripreso il controllo del partito ed è giusto che sia così. Probabilmente, anche a livello di risultati elettorali, ne potrà beneficiare. Stando all’opposizione è più facile e non serve una guida decisionista che riformi il nostro Paese.

Ma se mai dovesse tornare, nei numeri, una forza che può raggiungere la maggioranza e tornare al Governo con una coalizione riformista, quel giorno, il Partito ed i suoi elettori dovranno domandarsi che organizzazione darsi. Perché le strade saranno solo due: la riedizione dell’Ulivo con accorpamento di tutti i gruppi e gruppuscoli alla sinistra del PD, pronti a dissociarsi su qualsivoglia iniziativa riformista, o, la seconda, avere una chiara definizione dei ruoli e chiamare a capo del Governo del Paese un vero condottiero. Qualcuno in grado di prendere decisioni difficili, di imporsi, di saltare gli ostacoli avendo come obiettivo solo il bene del Paese. Se questo condottiero potrà essere Matteo Renzi o meno, dipenderà da quanto tempo servirà per tornare ad avere un consenso elettorale adeguato. Ma si sappia fin da adesso che quel condottiero non potrà essere il segretario conciliatore che è stato invocato dagli oppositori di Renzi. E, se Renzi sarà, che si prepari ad avere un “contratto di governo” blindato o sarà fatto fuori alla prima occasione, accusato delle peggiori nefandezze neo-liberiste. Sempre che non serva il sostegno di uno Scafarto qualsiasi. Quello si tira fuori quando il consenso nel Paese è troppo alto per potersi opporre solo politicamente ad uno con doti di leadership così elevate.

Ma sono certo che questo non servirà. Passeranno anni prima di riuscire a liberarsi da questo centro destra populista e neofascista e molti nostalgici del PCI avranno abbandonato le loro battaglie sostituiti dalla generazione dei millenials ai quali, prima o poi, qualcuno dovrà parlare e spiegare che stando incollati ai telefonini non sempre si può fare il bene del Paese.

La cultura del bene pubblico e dei principi democratici molte scuole hanno smesso di insegnarla. Qualcuno dovrà farlo al loro posto.

 

 




 

(22 marzo 2019)

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