di Vittorio Lussana twitter@vittoriolussana
Forse risulterò antipatico, ma le varie liturgie di commiato che ho letto in questi giorni per la scomparsa del compagno Pietro Ingrao mi hanno portato a nutrire ben poca nostalgia. A parte il fatto che se n’è andato a 100 anni ‘suonati’, la qual cosa mi ha fatto anche ritenere che fosse ormai giunta la sua ‘ora’, stiamo comunque parlando di un esponente comunista rimasto ‘abbarbicato’ fino all’ultimo all’ideologia marxista. Un marxismo eretico e senza alcun dubbio non settario, che tuttavia non ha mai voluto comprendere e superare una serie di contraddizioni imposte da un mondo che non poteva non prendere atto del fallimento della ricetta economica comunista. Ciò non significa che ancora oggi non vi siano, nel marxismo, una serie di presupposti pienamente validi, come per esempio l’idea dell’economia in quanto scienza ‘direzionata’ verso finalità sociali; oppure, la precisa diagnosi ‘fotografica’ delle ingiustizie prodotte dal sistema capitalistico nei suoi meccanismi più complessi; infine, l’idea di analizzare il passato storico attraverso la ‘chiave’ interpretativa dei rapporti economici tra le diverse categorie umane e classi sociali: un’intuizione che ha saputo trasformare la ricerca storiografica, liberandola dal dogma dalle verità automatiche della Storia scritta dai vincitori, al fine di trasformarla in un impegno intellettuale in cui la verità venga considerata un qualcosa da ricercare costantemente. Sotto il profilo sociologico e più genericamente culturale, il marxismo rimane “un buon paio di occhiali” per guardare all’indietro il lungo percorso dell’umanità, mandando tuttavia ‘in soffitta’ quei vetusti strumenti protestatori di una rivoluzione finalizzata unicamente a instaurare un pachidermico capitalismo di Stato, pesantemente burocratico nonché totalmente privo di quegli ‘stimoli’ di creatività e libertà di ‘intrapresa’ che, invece, costituiscono il vero motore dell’economia e della società. Il marxismo risultava già superato sin dai tempi della teoria sociologica espressa da Max Weber, il quale teorizzò l’idea di un capitalismo etico provvisto di anticorpi sociali di controllo, salvando il ‘bambino’ del metodo ‘galileiano’ del riformismo liberale e progressista, gettando altresì l’acqua ‘sporca’ della ‘lotta di classe’. Se il singolo individuo s’impegna veramente e lavora con impegno secondo criteri di seria autoeducazione personale e autorganizzazione professionale, nulla gli impedisce di riscattarsi e realizzarsi, trasformando in meglio le proprie condizioni di vita. Realizzare una società socialista come risultato della devoluzione di sé: ciò è possibile anche in una società capitalista; anche partendo da condizioni sfavorevoli; anche partendo da quei modelli in cui tutti sono convinti dell’esistenza di una ‘mano invisibile’ che da sola sia in grado di correggere disfunzioni e distorsioni. La vera fortuna dell’italo-marxismo italiano è sempre stato il fatto che il ‘sistema-Italia’ fosse di tipo corporativo, poiché ciò risultava complementare con la propria impostazione burocratica. Ma questi suoi notevoli ‘fardelli’ ideologici non solo resero a lungo impossibili le alternanze di sistema, ma persino quelle ‘periodiche’, poiché ci si ostinò ottusamente a non comprendere il ‘crepuscolarismo’ della totalità dottrinaria marxista, persino quando si ritrovò di fronte all’evidenza storica della repentina implosione del sistema socialista ‘reale’ del 1989. Il mondo stava cambiando: non riuscire ad accettare questa semplice verità fu un errore grave per un uomo di sinistra, che proprio in quanto tale avrebbe dovuto tener ben presente, come presupposto culturale fondamentale, una visione dinamica della Storia, la quale non sempre si dirige verso radiose albe di progresso. Il marxismo è sempre stato un socialismo ‘coatto’, che ha persino rischiato di rallentare l’emancipazione stessa dei ceti meno abbienti, poiché li ha trasformati in una nuova piccola borghesia, moralmente più onesta, ma a lungo imprigionata in quella terribile ‘camicia di forza’ della mera protesta contestataria e improduttiva, priva di ogni benché minima idea di concretezza progettuale. Insomma, l’anomalo comunismo-democratico, teorizzato dalla generazione politica espressa dal Pci durante gli anni ’70 del secolo scorso, fu un’evidente contraddizione in termini. Le persone e i singoli militanti di quel movimento potevano essere sicuramente considerati dei sinceri democratici: lo hanno dimostrato in numerose occasioni, sin dal contributo incontestabile che i comunisti italiani hanno saputo donare al Paese, al fine di portarlo al di fuori da un dittatura, difendendo al contrempo un sistema democratico esposto a numerosi rischi e debolezze. Al Partito comunista italiano vanno riconosciuti molti meriti storico: esso riuscì a capire sinceramente che la democrazia era un valore e una conquista irrinunciabile. E qualcuno ebbe anche il coraggio di affermarlo con chiarezza di fronte ai Partiti comunisti di tutto il mondo. Ma proprio per tali motivi, per lungo tempo Ingrao e Berlinguer non compresero come la questione di un approdo al socialismo democratico ‘turatiano’ si stesse riproponendo prepotentemente, poiché qualsiasi filosofia, se non opportunamente rielaborata, si trasforma in un ‘meccanismo’ freddamente ottuso e persino pericoloso. La grigia sintesi del collettivismo che riduce ogni organo dello Stato a un unico ufficio non è mai bastata a superare quelle molteplici contraddizioni umane che si ripresentano puntualmente, in altre forme e attraverso distinte sembianze, degradando il ‘sogno’ di una società più libera e giusta in una sorta di ‘misticismo ateo’, perennemente alla ricerca di una pura oggettività, la quale non è altro che una mera utopia. L’ottusa ostinazione di Ingrao a non voler abbandonare quella ‘portaerei in secca’ che era divenuto il Pci è stato, inoltre, un altro di quegli elementi di complicazione che hanno contribuito a non modificare quasi nulla dei difetti e delle inefficienze istituzionali del sistema politico italiano, indebolendo e dividendo ulteriormente la sinistra durante il suo già controverso percorso di revisione culturale. Ciò, oltretutto, all’internoo di una fase assai delicata di ‘transizione’ ancora oggi non perfezionata, che stava ‘sfornando’ egoismi e demagogie provincialiste a getto continuo, in cui era necessario che la sinistra assumesse con decisione il proprio ruolo di ‘forza-custode’ dell’unità nazionale e della stessa democrazia. Non aver voluto compredere tutto questo ha reso la figura di Pietro Ingrao come quella di un esponente testardo e nostalgico, ormai destinato al declino: il rappresentante di un mondo che ormai se n’era andato e che non sarebbe tornato mai più. Per carità: anche noi salutiamo con sincero dolore la scomparsa di un’ottima persona. Ma in quanto esponente politico, credo proprio vi sia ben poco da rimpiangere, se non il fatto di essersi trovati, per lungo tempo, di fronte a una delle numerose ‘teste dure’ del panorama politico italiano.
(2 ottobre 2015)
©gaiaitalia.com 2015 – diritti riservati, riproduzione vietata
Iscrivetevi alla nostra newsletter (saremo molto rispettosi, non più di due invii al mese)