di Mila Mercadante twitter@Mila56170236
La casa produttrice della serie Gomorra – Cattleya – se è stata ben accolta in Campania la prima volta, la seconda viene contestata da gruppi di manifestanti pacificamente ostili e incontra non poche difficoltà a reperire i set nelle strade e nei palazzi dei comuni campani. Negazionismo connivente dei cittadini e delle istituzioni locali? Coda di paglia? Così si dice, e si recita un falso bello e buono. Cattleya dichiara “noi portiamo lavoro e benessere”. La frase è fuori posto perché rivela la scarsa memoria della produzione: quando venne girata la prima serie della fiction il benessere entrò nelle tasche già piene di un temibile boss, al quale Cattleya non disdegnò di chiedere in affitto la villa per 30mila euro perché era adatta all’uopo come nessuna imitazione avrebbe potuto essere, e non disdegnò di affidare il catering alla sorella di quel boss, che durante il periodo delle riprese diede da mangiare e da bere a tutta la troupe. Ci fu un’indagine della magistratura, nessuno fu ritenuto colpevole di reati, ma alcune registrazioni di telefonate intercorse tra il boss e un rappresentante della società cinematografica diedero l’esatta misura di come ci si adoperasse per mentire e per rassicurare il malavitoso mediante uno “sdoppiamento di mentalità” piuttosto audace. Le giustificazioni furono banali e discutibili: “In certi territori o fai così o non lavori”. Una domanda sorge spontanea: se è vero, perché non si va a girare a Cinecittà?
Roberto Saviano – del tutto estraneo alla vicenda – per una volta è rimasto zitto, e in seguito non ha mai espresso alcun parere su un episodio che non può che essere definito increscioso. Se si racconta che la fiction vuole moralizzare e insegnare la legalità non si può dare l’esempio contrario e poi lamentarsi se i campani non si prestano volentieri. Saviano scrive sui giornali, rilascia interviste con austerità da parata e puntualità metronomica, peccato che bacchetti sempre chi azzarda pareri contrari ai suoi, tacciando senza complimenti i detrattori di ipocrisia, invidia o malafede. Lo scrittore probabilmente ha un’opinione molto scadente dei suoi corregionali: appoggia Rosy Bindi che sull’argomento camorra si è spiegata malissimo, come sintetizza in un tweet un altro napoletano – Erri De Luca – con rara semplicità: “Camorra elemento costitutivo di Napoli? Come dire che le pulci sono costitutive del cane. Identificare il parassita con chi lo subisce.” Per Saviano dunque sbagliano coloro che non hanno apprezzato la frase di Bindi. Sbagliano i napoletani a cui non piace la serie ispirata al suo bellissimo libro ma del quale non è neanche lontana parente: trattasi di una versione alleggerita del suo carico di orrore, candeggiata, lavata, stirata, profumata e portata dal parrucchiere. Sbagliano i cittadini onesti di Scampìa per nulla grati d’essere stati rinchiusi nel recinto insormontabile del male (come se non ci fossero – perfino in quel quartiere – ambizioni, tanti progetti realizzati e aspirazioni). Sbagliano Dimitri Russo e Domenico Tuccillo, i sindaci campani che non hanno voluto la troupe di Gomorra nei loro comuni, Castelvolturno ed Afragola. “Perché fanno la fila a non autorizzare le riprese? Perché così fingono di difendere il proprio territorio. Non si rendono conto che tu lo difendi non impedendone il racconto, ma trasformandolo. Cosa credono di fare, di salvare il proprio territorio dal racconto della realtà?”, ha dichiarato di recente Saviano, come se Russo, Tuccillo e tanti altri uomini e donne di buona volontà invece di tentare di “trasformare il racconto” stessero lì a girarsi i pollici dalla mattina alla sera.
I due sindaci sono persone serie, sono persone che lavorano e lottano in territori difficili e dimenticati e che hanno motivato la loro opposizione senza intenzioni polemiche: certi luoghi – che di camorra e di violenza sanno già tutto – hanno bisogno di legalità, di maestri, di cultura, di architetti, di piani regolatori, di fognature, di progetti, di competenze, di Stato, di prove d’amore. La questione non ha nulla a che vedere con la negazione della camorra (chi la nega?, come si fa a negarla?) e men che meno con l’ipocrisia. Bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che Gomorra la serie purtroppo è un prodotto commerciale che piace parecchio anche alla camorra e – più pericolosamente – a tutto il sottobosco della manovalanza, fatto di giovanissimi che identificano i boss di quartiere col potere con la legge con l’ufficio di collocamento con la scuola: nelle periferie ignorate dallo Stato la prima figura di riferimento reperibile nella vita di un ragazzino è il camorrista che fa paura, protegge, punisce, detta le regole, procura “lavoro” ed esercita perfino un terribile fascino. Hanno fatto bene i sindaci a proteggere i loro territori, i quali per destino e per demerito sarebbero rimasti bollati per sempre e inutilmente, proprio come Scampìa.
L’inutile paragone tra Medea e la camorra che Saviano ha azzardato non regge: secondo lui Gomorra-la serie non produce l’effetto emulazione così come la tragedia greca non rende assassine tutte le donne abbandonate. Diamine, come si fa a semplificare a tale punto? La camorra trasformata in spettacolo e in “nuova serialità” non rappresenta l’archetipo di sentimenti e impulsi primordiali dell’essere umano e non sublima un bel nulla: non producendo catarsi, Gomorra-la serie può al contrario stimolare uno scandaloso tifo, non solo al sud ma nelle banlieues di mezzo mondo. Un lussuoso prodotto da esportazione non è – come sostiene Saviano – “il racconto della realtà” bensì un limbo nel quale il crimine e la morte servono soltanto all’intrattenimento serale. In quel limbo sono nati nuovi divi: gli eroi del male, gli araldi di una moda oscena, i paladini della gag assurta a fenomeno virale. Che la serie non finisca mai, che vada avanti per sempre come Sex and the city, auguri!, ma che almeno non la facciano passare per uno strumento educativo e soprattutto che la smettano di dare dell’ipocrita a chi non apprezza.