di Gianfranco Maccaferri
Omar ha 23 anni, vive a Dakar, frequenta il terzo anno di università, suo nonno è uno dei più prestigiosi imam della provincia e spesso lo chiamano per delle trasmissioni televisive.
La famiglia è borghese, ricca e tutti i famigliari di Omar sono laureati; Omar vive da benestante ma è generoso con gli amici, paga sempre lui al bar e al ristorante, è un ragazzo amato da tutti perché è sempre gentile, disponibile, molto educato.
Omar è gay.
Solo i suoi amici gay lo sanno e nessuno lo tradirà mai perché tutti hanno questo segreto da condividere e nascondere.
Omar esce con un ragazzo straniero, il ragazzo è bello e anche lui è amico di tutti.
Ma Omar un giorno si accorge che viene tradito e questo gli è insopportabile così litiga furiosamente con il suo fidanzato.
Omar ha deciso di rompere la relazione e il ragazzo straniero, non riuscendo a farsi perdonare, si sente offeso e capisce che sta perdendo tutto, così giura che si vendicherà.
Corre a casa di Omar e, come indemoniato, racconta alla madre tutto su Omar poi esce, deve scappare lontano, prende il primo bus per tornare al suo paese di origine conscio che a Dakar ha perso tutto e tutto è diventato pericoloso.
Omar, triste e confuso per la fine del suo amore, torna a casa non sapendo di chi lo ha preceduto.
Entrato nel salone trova il padre e la madre in piedi, nervosi, che lo aspettano.
La madre gli racconta quanto le ha detto l’oramai ex fidanzato, gli dice che vuole morire, che non si meritava un figlio così, che lo aveva sempre sospettato ma sperava che il figlio nascondesse l’essere gay sposandosi, facendo una vita rispettabile.
Omar capisce che sta iniziando un delirio.
Lo aveva sempre saputo che l’amore di una madre finisce quando scopre che il figlio è un frocio.
Il padre prende un bastone e inizia a picchiarlo con tutta la forza che ha.
Omar non reagisce, è giusto che sia così. Lo aveva sempre saputo che un padre finisce di essere tale quando il figlio infanga l’onorabilità della famiglia.
Quando il padre ha terminato le forze fisiche, Omar si alza da terra e lentamente esce, con grande fatica cerca di camminare e piange per il dolore mai provato prima così acuto ed esteso nel corpo.
Trova ospitalità da un amico, gli racconta una bugia e per due giorni non esce da quella casa.
Poi decide che deve tornare a casa sua per prendere dei soldi, per recuperare la sua roba, i suoi vestiti.
Trova la madre che, sprezzante di tutta la pena che un figlio massacrato dalle bastonate dovrebbe suscitare, gli urla di non entrare in casa, di non farsi mai più vedere, che lui non è figlio suo, di non nominare mai il cognome che porta e che tutti i suoi vestiti sono stati bruciati insieme a tutta la sua roba.
Lo aveva sempre saputo che avrebbe potuto smettere di essere casa sua quella bellissima villa, perdere tutto faceva parte del gioco e lui non poteva far altro che giocare, non era una scelta.
Omar decide di tornare a casa dell’amico ma davanti al cortile trova un cartello con scritto:
Omar qui non è il benvenuto!
Si incammina lentamente verso l’università per mangiare qualcosa alla mensa.
Quando entra tutti lo guardano esterrefatti: nessuno aveva mai visto Omar alla mensa degli studenti, lui era sempre andato a mangiare a qualche ristorante dei dintorni.
Da solo prende qualcosa e si siede ad un tavolo libero e mangia.
Arriva frettolosamente il responsabile della mensa e lo avvisa che non può mangiare gratuitamente in quanto il reddito famigliare non gli da l’esenzione e quindi deve pagare.
Consumati i pochi soldi che ha in tasca va al bancomat a ritirare contante per andare in una pensione a sistemarsi.
Sul monitor appare la scritta: carta di credito ritirata per chiusura conto bancario.
Lentamente, disperato e sempre più confuso, si dirige verso il piccolo parco che conosce bene per le frequentazioni serali, lì trova una panchina libera in una zona riparata dagli sguardi dei passanti e si sdraia, dorme sino al mattino successivo, fuggendo dalla sua realtà.
Al mattino si lava alla fontana e poi si incammina verso l’università progettando il comportamento da tenere con gli amici e cosa raccontare per poter essere aiutato.
Entrato dal cancello principale trova un gruppo di ragazzi tra i quali alcuni suoi amici, si incammina verso il gruppo e scopre che c’è anche un ragazzo gay con il quale anni prima aveva avuto una piccola storia, così rincuorato si rivolge subito a lui salutandolo.
L’amico lo guarda in silenzio, tutto il gruppo è come in sospensione, Omar non capisce, gli sorride, ma dalla bocca dell’amico parte improvviso uno sputo che lo colpisce sulla fronte.
Impietrito, per diversi secondi non riesce a muoversi, a parlare, a cambiare espressione: si accorge che sta ancora sorridendo.
Il gruppo si allontana da lui.
Omar prende il fazzoletto e cerca di pulirsi dalla saliva che lentamente gli cola dalla fronte sino alle guance, ma quando riapre gli occhi si accorge di ciò che lo circonda: lungo tutto il muro di ingresso ci sono scritte nere ripetute “Omar frocio” “Omar non può entrare in questa università”.
Dopo qualche istante capisce che deve uscire da lì, che non è più la sua università, che lì non ha più amici.
Frettolosamente torna per l’ultima volta nel salone dove ci sono gli armadietti degli studenti per prendere le cose che potrebbero essere importanti: lo spazzolino da denti, la giacca e la camicia di riserva, le scarpe da ginnastica.
Si accorge che nessuno entra o esce dal salone, il silenzio è strano, solitamente c’è confusione: ragazzi che vanno e vengono, saluti, scherzi, battute…
Esce dal salone e si dirige verso il cortile di uscita.
Vicino al cancello c’è un gruppo numeroso di studenti che lo guardano, silenziosi.
Omar continua a camminare, si avvicina, vorrebbe correre ma i dolori che ha in tutto il corpo a causa delle bastonate ricevute dal padre lo costringono ad avanzare lentamente.
Al suo passaggio il gruppo si apre, lui ci deve passare in mezzo.
Il primo colpo lo sente sul ginocchio, il secondo dietro la testa, il terzo sulla bocca…
I sassi arrivano da tutte le parti, il gruppo si chiude intorno a lui a cerchio, l’unica cosa che può fare è mettersi a terra in posizione fetale, non lo decide, è un istinto per proteggersi.
Il lancio di pietre si ferma, due ragazzi si avvicinano, lo sollevano, lo fanno mettere in ginocchio.
Omar capisce la scena, la conosce, l’ha già vista.
Si accorge che non può parlare, la bocca non si apre dal dolore e il lancio di pietre rincomincia.
Deve subire senza accasciarsi, se lo merita, è un frocio.
Lo aveva sempre saputo che sarebbe successo, ma non si era preparato, non aveva mai pensato a cosa avrebbe fatto, quali espressioni avrebbe avuto, quanto tempo avrebbe sopportato… il suo vivere agiato, ricco, rispettato lo aveva reso lontano dalla realtà.
Si sveglia che è notte, è sul marciapiede esterno dell’università, i dolori sono acuti in ogni parte del corpo, si riaddormenta o probabilmente sviene nuovamente.
La luce del sole lo trova ad occhi aperti, seduto sul marciapiede, insanguinato, non vede quasi nulla ma capisce che non c’è nessuno intorno.
Poco dopo un uomo gli si avvicina, gli sembra di riconoscere il bidello dell’università, non fa in tempo a guardarlo più attentamente perché una secchiata d’acqua lo colpisce violentemente poi sente i passi dell’uomo che velocemente si allontano.
Il getto d’acqua gli ha pulito il volto, lo ha svegliato, ha rimesso in funzione i pensieri.
Appoggiato al muro si trascina sino al piccolo parco e ritrova la sua panchina appartata ma non riesce a stendersi, il dolore della carne e delle ossa a contatto con il sedile e lo schienale sono insopportabili.
Rimane appoggiato sul bordo del sedile per lungo tempo.
Poi si alza e decide che deve sentire l’amico, l’ultimo rimasto, quello su cui può contare.
Si dirige verso l’internet point che a quell’ora del mattino sarà sicuramente deserto come infatti lo trova, chiede al proprietario se può usare per un’ora un computer, ma avvisa il proprietario che in tasca non ha soldi ma all’indomani passerà a pagare.
Un cenno del capo del proprietario gli permette di andare nel retro.
e-mail:
Caro amico Moussa,
in questi ultimi tre giorni non ti ho più scritto, ma adesso capirai.
Ti scrivo la mia storia, uguale a quella di tanti nostri amici, così credo sia meglio raccontarla in terza persona, tanto non sono più io.
Tu sei in Italia, hai fatto bene ad andartene, io non capivo… non credevo potesse capitare a me.
Traduci questa storia al tuo amico… Franco si chiama? mi hai detto che è un bravo uomo, che conosce molte persone importanti, forse lui, solo lui, può aiutarmi.
Caro Moussa, mi manchi, so che mi aiuteresti se tu fossi qui, tu sei l’unico a cui posso rivolgermi: aiutami.
Questa è la storia dei miei ultimi tre giorni:
Omar ha 23 anni, vive a Dakar, frequenta il terzo anno di università, suo nonno…
Il giorno dopo Moussa ha ricevuto una e-mail da un suo amico di Dakar
Caro Moussa, Omar è stato arrestato ieri mattina presto all’uscita dall’internet point vicino al parco dell’università.
“Cinque anni di carcere lo aspettano” così mi ha detto un poliziotto.
Probabilmente verrà ammazzato, tanto nessuno chiederà mai di lui.
Mi spiace, so che eravate grandi amici.
(continua)
(29 giugno 2014)
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