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Il Manganello del La Karl du Pigné: “C’era una volta Stonewall e forse c’è ancora”

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La Karl Du Pigné 00di La Karl du Pigné

Assieme a sprazzi di tempo quasi decente, dopo settimane di pioggerellina alternata a  cieli coperti, gli ultimi giorni di questo mese di maggio ci stanno avvicinando ai grandi appuntamenti della comunità lgbtqi del mese di giugno che, ogni anno, raccoglie  quasi i tutti i pride italiani. Grande fervore, almeno per me che il mio Pride lo faccio a Roma e al quale mancano ormai una spicciolata di giorni. Cosa succederà quest’anno non ci è dato saperlo: Roma apre le danze il 7 Giugno e si arriva poi con il cosiddetto Onda Pride fino al 28 Giugno (la data di Stonewall….. ricordate? Stonewall Inn, New York, Sylvia Rivera,  un tacco 12 lanciato verso un poliziotto, le barricate e, quella si, l’onda enorme che fa tremare tutta l’America).

Non vorrei essere come al solito autoreferenziale ma insomma un po’ di storia non fa male a nessuno e d’altronde così sono andate le cose: una travestita è stata l’apripista inconsapevole del nostro movimento e, con un semplice gesto ha  acceso la miccia dell’insoburdinazione. Che nessuno dimentichi  che tutto è nato da un tacco (Sylvia Rivera, che ho avuto l’onore di conoscere al World Pride romano del 2000, raccontava sorridendo che forse quella che aveva tirato in faccia al poliziotto era una bottiglia vuota di gin)  ma volete mettere quanto sia più favoloso un decolleté?

Insomma, rispetto alla creazione di Adamo ed Eva (la seconda una povera costoletta del primo) qui invece pare proprio che il movimento gay sia nato da un 42 pianta larga tacco 12 di un omosessuale che amava travestirsi e passare le notti allo Stonewall Inn di New York tutta in ghingheri con i suoi abitini rosa e la fascia intonata sulla parrucca. Questo ricordatelo per l’intera lettura , vi servirà alla fine.

Sarà un po’ perché erano gli anni Settanta (io me li ricordo, ahimé da una parte e menomale dall’altra) con le occupazioni nelle scuole, le riunioni dei collettivi, il femminismo e ricordo che quando ascoltavo le mie amiche parlare di corpo, di desiderio, di sessualità libera, di autodeterminazione, come una sciocchina pensavo che erano tutte cose che volevo anche io e quindi per un po’ di tempo ho vissuto con l’idea di essere una donna nata in un corpo non suo, troppo vicini erano quegli ideali ai miei. Ma ero piccolina e con il tempo ho capito che per condividere quelle robe lì e poi rielaborarle non serviva essere donna. Ecco, quel periodo non l’ho mai dimenticato e non vorrei che qualcuno pensasse che sono un nostalgica sciocchina: non si stava meglio quando si stava peggio, si stava peggio e basta. I tempi si sono evoluti, noi siamo cambiati, il mondo anche è cambiato, è diventato più veloce, tutto viene consumato diversamente.

Ogni tanto qualche lampo qui e là mi fa ricordare da dove arriviamo, come eravamo e cosa è successo nel frattempo. Pochi giorni fa un concorso canoro internazionale famosissimo in tutta Europa (noi Italiani come al solito  siamo indietro anche lì, lo abbiamo snobbato per anni, forse perché avevamo paura che avrebbe fatto troppa concorrenza al Festival di Sanremo) ha proclamato vincitrice una drag queen con la barba, Conchita Wurst, arrivata dalla conservatrice Austria.

Il fatto di per sé è una praticamente una notizia tra gossip e spettacolo: un astruso personaggio vestito da donna, con una voce decisamente non male, barbuto, arriva primo in una competizione canora. In confronto i nostri Righeira sarebbero stati altrettanto bizzarri ancora oggi.

Ma la sola presenza di Conchita ha fatto inalberare in fila indiana prima la Bielorussia, poi la Russia, infine la Turchia che ha addirittura annunciato che non parteciperà più all’Eurovision Song Contest, capirete con quale enorme danno per musica leggera e che ha suscitato il  mio sentito e vibrante rammarico personale.

Già questo mi sarebbe bastato, una carambola e via,  tre coglioni in meno. Ma questo è stato solo l’inizio. Ha sbaragliato tutti, ha vinto con un punteggio quasi da record, la Russia in finale è stata sonoramente fischiata e, ciliegina sulla torta, dopo aver ritirato il suo meritato trofeo e aver detto una roba mediamente banale da Miss Nonsocosa, ha concluso con le magiche parole “we are unstoppable”.

A  volte le cose nella vita arrivano così, quasi per caso. Solo dopo un attimo si accende una lampadina. A molti,  troppi nella comunità lgbtqi, sfugge evidentemente l’inaspettato regalo che è arrivato da Copenhagen. Sul web anche gay e lesbiche hanno scritto che quella è una brutta immagine dei gay, che non è rappresentativa del movimento,  in un caso addirittura uno scherzo della natura. Io ritengo che forse la  nostra comunità dovrebbe interrogarsi su quanto di quel lontano 1969, di Stonewall, di Sylvia Rivera e di tutto quello che è successo dopo è veramente nostro bagaglio, personale e comunitario. Tre parole, uno slogan che va bene da Ulan Bator a San Paolo del Brasile passando per dovunque. Un messaggio dirompente, unico, universale. Siamo inarrestabili. Cosa altro servirebbe? Chi non capirebbe? Chi non ci vede tutto: il messaggio alla società civile, quello politico ai governanti, quello maggiormente importate di coesione della comunità. Siamo tutte e tutti inarrestabili, una nuova vera rivoluzione, almeno a mio modo di vedere le cose.

Io, che oltre a essere una drag queen strafiga sono anche del tipo pensante, percepisco un sottile e pervadente filo che unisce questa vittoria del 2014 a quella, forse più inaspettata, della transessuale israeliana Dana International del 1998, che fece molto più bene alla questione transessuale di molti convegni, libri e testimonianze. E da questo salottino, dove poggio con delicatezza sulla tastiera del computer le mie dita lunghe e affusolate, guardo anche più lontano e, come nella teoria del tempo circolare di Marquez in “Cent’anni di solitudine”, vedo corsi e ricorsi che mi si parano davanti e, mordicchiandomi nervosamente le labbra  disegnate e riempite del mio unico e favoloso Chanel  Rouge Allure 47 Absolu Topaze, capisco che anche stavolta ci siamo persi una bella opportunità. Questo per restare sulla consueta eleganza che mi contraddistingue. La mia amica lella convinta  di Ciampino avrebbe chiuso questo chiacchiericcio dicendo semplicemente: “ vabbé pure stavorta se semo fatti magnà er cazzo dalle mosche”. E avrebbe anche lei ragione.

Baci sparsi ovunque.

 

 

 

 

 

 

 

©La Karl du Pigné 2014
©Gaiaitalia.com 2014
diritti riservati
riproduzione vietata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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