di Vanni Sgaravatti
La tecnologia diventa task-oriented e non value-oriented o goal-oriented. Nessuna macchina sostituisce un impiego, ma piuttosto sostituisce un compito.
La tecnologia ha un impatto sull’impiego solo indirettamente, modificando l’impostazione organizzativa dei soggetti artificiali – Imprese e Stati.
Nelle imprese, la struttura organizzativa diventa frammentata e orientata ai compiti, lasciando gli obiettivi generali ai pochi che stanno in cima alla governance, mentre gli Stati si frammentano in progetti, perdono la visione generale e questo determina una crescente centralità della burocrazia.
Il problema dei lavori che spariscono con la tecnologia e vengono rimpiazzati da nuovi lavori che implicano una sofferenza sociale nella transizione era un problema della prima modernità, ma solo in parte di quella contemporanea. Ora la tecnologia sostituisce le carriere con gli impieghi e gli impieghi con i compiti. Tutto diventa a termine e si esaurisce con la fine del compito, la conclusione di un progetto.
Imprese e Stati si strutturano in progetti, le persone sono intercambiabili, non perché sono operatori che svolgono compiti meccanici, neppure le tecnologie fanno solo questo. Ma perché sono in connessione con specifici compiti all’interno di altrettanto specifici progetti. Si studiano quindi sistemi sociali, che assomigliano ad ammortizzatori per gestire il cambiamento, più che ad una riconfigurazione strategica, come risposta per rendere il soggetto padrone del proprio destino e del relativo proprio percorso di apprendimento.
Questa è l’acqua in cui nuotano i nostri figli.
Non che questo mondo sia meglio di quello in cui relazioni umane dentro il lavoro erano soggette a sfruttamento e oppressioni (e che, ovviamente, lo sono ancora, in particolare nella maggior parte del mondo, che mantiene la configurazione dello sfruttamento della prima modernità, che sostiene l’estrazione delle risorse per il mondo tecnologico dei paesi ricchi).
E’ meglio o peggio di prima o c’è dell’altro
È solo molto diverso. E immaginarsi di tornare a quello precedente non ha comunque senso.
Dal lato dello Stato, la burocrazia attribuisce ai politici il ruolo di rassicurare che il sistema è umano, lasciandoli correre, indipendentemente dallo Stato, al di fuori della realtà delle loro promesse. Questo produce una selezione di figure di politici che per fare carriera devono conformarsi a quel ruolo. Risulta evidente che i politici adatti sono quelli con una spiccata propensione a mettere al centro sé stessi, senza alcuna autocritica compensativa.
Il complesso di colpa è un elemento compensativo, quello che ti spinge a guardarti allo specchio per chiederti chi sei e cosa stai facendo.
Ma l’isolamento in categorie e l’inquadramento del ruolo del politico in una corporazione, con tanto di linguaggio specifico e riti di accesso (mai parlare male della tua parte, filtrare le informazioni che possano danneggiare il clan, perché l’altro fa altrettanto, l’importanza della comunicazione come narrazione seduttiva, rassicurare gli elettori sulla capacità di superare i problemi e di raggiungere gli obiettivi) anestetizza quel complesso di colpa che di solito risveglia una coscienza, magari maturata in contesti dove si era fatto esperienza di valori diversi. Questo è il pericolo del rapporto tra intelligenza artificiale e agency artificiale (Stato e Impresa): aumentare fino ad un punto di non ritorno la marginalizzazione dell’umano, prendendo a prestito i volti degli umani-politici, così da indurre le persone a concentrarsi sui volti dei personaggi “cattivi”, dimenticando i meccanismi che governano la selezione dei profili giusti per la comunicazione sociopolitica.
Solo chi è un pazzo (fuori dalle regole) ed emerge all’apice, può avere un rapporto quasi alla pari con le macchine.
E mi sembra che Hitler, Trump e Musk rispondano a queste caratteristiche (tralascio Putin, perché quello è un essere proveniente da una storia dell’altro secolo e, al contrario di Hitler, è sopravvissuto in questa).
Paradossalmente, il complottista puro, quello che sostiene che tutti i volti conosciuti non sono il vero potere forte, ma sono solo emissari di un altro potere, senza nome, potrebbe, allontanandosi sempre più dalla verità, ritrovarsi, però, più vicino ad essa.
Solo che quando arrivasse nel paradiso dei complottisti puri o, per dirla in un altro modo, si avvicinasse al cuore dei complottatori, scoprirebbe che non c’è nessun volto, nessun umano, così come dietro la voce intelligente di AL il super computer di tanti film di fantascienza c’è solo un processo che fa emergere realtà inquietanti, ma non un oggetto, una unità. Tutto questo richiama le metafore della fisica moderna, la gravità quantistica o il fenomeno dell’entanglement: non esistono le palle che girano nell’universo, non esiste una forza misteriosa che le attrae, non esiste una distanza come la intendiamo noi.
Siamo noi e l’universo, la palla, un unicum, ci plasmiamo, ci modifichiamo, scompariamo alla coscienza di una parte della realtà che vuole vedere l’acqua in cui nuota (impossibile), ma non esiste al di fuori dell’osservatore una oggettiva distanza tempo-spaziale. Non so se dietro tutto questo c’è una entità, sicuramente non credo che abbia la sembianza di un signore anziano, saggio, con la barba. Gli intellettuali, se cercano di approfondire e non si prestano al gioco della continua contrapposizione tra partiti, squadre e clan hanno, in questa fase di turbolenta transizione, un ruolo importante, nel proporre narrazioni che siano più aderenti alle reali urgenze della modernità.
Un errore “intellettuale”, in questa fase comporta conseguenze sociali, culturali e, quindi, responsabilità non da poco.
(14 marzo 2025)
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