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Renatino innamorato delle sue mucche #Giustappunto di Vittorio Lussana

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di Vittorio Lussana, #Giustappunto

La polemica esplosa per lo spot pubblicitario del Parmigiano Reggiano dev’essere osservata in maniera più esaustiva, comprendendo meglio come esistano più livelli di lettura. Innanzitutto, l’episodio fa parte di una serie di spot da 30 secondi, a loro volta estratti da un mediometraggio intitolato “Gli amigos”, diretto da Paolo Genovese. Si tratta di un regista che ama utilizzare molti attori, anche di valore, ma che talvolta si affida a un gruppo di autori e sceneggiatori che non entusiasmano la critica. Soprattutto per i dialoghi, talmente melensi da esser giudicati, spesso e volentieri, “irreali”.

Sia come sia, in questo lavoro, commissionato direttamente dal Consorzio del Parmigiano Reggiano, il problema è sorto sulla figura di Renatino, un lavoratore del settore caseario felice di lavorare, sin da quando aveva 18 anni, per 365 giorni all’anno, senza aver mai neanche visto il mare, senza essere mai andato a Parigi, senza mai andare a sciare e così via. Non tromba neanche, questo qui: un malato per le sue mucche e il suo formaggio. Ma fatevele due risate ogni tanto, no?

Letto in un’ottica marxista, ovviamente si pone il problema dello sfruttamento del povero Renatino. Ma non è questa la chiave di lettura del marketing: il fatto che Renatino lavori per 365 giorni all’anno è un’iperbole, cioé una figura retorica. L’intento dello sceneggiatore è quello di comunicare che, per far bene il Parmigiano Reggiano, per dare il meglio del meglio al consumatore, chi lo produce è animato da un’ossessione per il prodotto finito. Pertanto, dovrebbe risultare chiaro e lampante che Renatino esageri, nel confermare che tutto ciò che ha appena affermato l’attore Stefano Fresi, cioè colui che sta accompagnando un gruppo di ragazzi in visita al caseificio, sia vero.

Questa tecnica di scrittura è una di quelle figure letterarie che, ancora oggi, in molti non comprendono. “La metamorfosi” di Franz Kafka parla di un tizio che si sveglia, una bella mattina, trasformato in un insetto, un moscone gigante o qualcosa del genere, come ne La mosca di David Cronenberg. E’ chiaro che il racconto è assurdo, ma lo scrittore è talmente ironico nel suo descrivere ciò che accade nel dettaglio e i pensieri stessi del protagonista, che la novella si trasforma in un capolavoro.

Si può fare anche l’esatto contrario: all’interno di un racconto credibile si possono inserire una serie di colpi di scena surreali, come ne “L’uovo” di Dino Buzzati. Se lo spettatore medio leggesse qualche libro in più, probabilmente svilupperebbe l’accortezza, la sensibilità e il cuore per comprendere la tecnica attraverso la quale un testo qualsiasi viene scritto. Si tratta, infatti, di figure, di tecniche di scrittura ben precise.

Tanto per fare un altro esempio, prendiamo “Il Signore degli Anelli”. Si tratta di un’opera ambientata in un contesto totalmente immaginario, di fantasia. Eppure il lettore, pur sapendo ciò, prosegue nella lettura, perché se tutto il mondo che Tolkien descrive all’inizio fosse vero, il racconto che egli innesta al suo interno assume un proprio senso logico, vive di vita propria. Il vero problema, insomma, diviene quello di sapere cosa si sta facendo, distinguendo una cosa vera da una falsa. Una caratteristica che dovrebbe essere il terreno d’incontro tra un autore e i suoi lettori.

Mettere in bocca a Renatino qualche battuta in più, almeno per spiegare che, molto probabilmente, ogni mattina lui munge le sue mucche e, nel seguito della giornata, si fa anche un po’ di cavoli suoi, sarebbe servito catarticamente a fornire al telespettatore qualche chiarimento in più.

Insomma, utilizzare un linguaggio cinematografico per uno spot televisivo richiede maggior attenzione. Il problema, infatti, è sorto non tanto per ciò che l’autore ha scritto, quanto nell’episodio estratto, che posto così rimane un frammento un po’ tronco, avulso dalla vicenda complessiva, che è poi quella di una sorta di contest che un gruppo di giovani aspiranti-cuochi sta affrontando per entrare a far parte del gruppo guidato dal solito mago della cucina: un genere di supereroi dai quali vi era stato detto più volte di stare lontani, per questioni di narcisismo.

Noi continuiamo a ribadirlo: gli italiani non hanno un problema con la verità o con la falsità di un’informazione. Essi partono sempre dallo stesso punto di vista: il proprio. E se ciò che vedono o leggono non li stuzzica, non li prende di pancia o non colpisce la loro immaginazione, essi non proseguono nella lettura e piantano tutto lì. Non c’è un mondo di cazzàri, fuori dalle mura di casa nostra: siamo noi che non amiamo le cattive notizie, rispetto a quelle buone. Ma così è come scartare il grasso del prosciutto: una cosa da persone viziate. Ecco perché pensiamo sempre male e vediamo la lotta di classe ovunque e dappertutto. E di certo, se noi giornalisti smettessimo di dare le brutte notizie, le conseguenze sarebbero molto gravi. Per tutti.

 

(10 dicembre 2021)

©gaiaitalia.com 2021 – diritti riservati, riproduzione vietata

 




 

 

 

 

 

 

 



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