di Vittorio Lussana #Giustappunto twitter@gaiaitaliacom #Politica
A 45 anni di distanza dalla morte, la riflessione di Pier Paolo Pasolini in merito a uno sviluppo economico avvenuto in forme accelerate attraverso una modernizzazione lutulenta, non accompagnata da un reale progresso della mentalità culturale e civile degli italiani, appare oggi un qualcosa di assolutamente profetico, di insuperabile. Un monumento, forse un po’ estetico e tuttavia profondamente sofferto, rappresentativo di un modo di scrivere, di ragionare, di approfondire, di interpretare e denunciare temi e problemi fondato sulla ‘roccia’ della conoscenza, della Storia e persino dell’arte italiana.
La sinistra di derivazione italo-marxista ha in lui – e non in altri – il suo testimone più credibile, più coraggioso, più aperto, maggiormente sensibile: in una parola, autentico. Nessuno può riuscire a rappresentare o a incarnare, oggi, la sua visione. Di Pier Paolo Pasolini ce n’è stato uno solo. E la sua esperienza, umana e letteraria, rappresenta un qualcosa di irripetibile.
E’ soprattutto questo a ricordarci, oggi, che egli non è più tra noi. Le sue opere appaiono intangibili nel tempo, come se fossero ancora vive la sua voce, le sue ossessioni, la sua anima. Mentre, al contrario, il vuoto che ha lasciato nella nostra cultura è divenuto un qualcosa di incolmabile.
Il tema è molto più complesso di quanto sembri, poiché si pone alla base di ciò che molti non riescono a comprendere allorquando si parla di cultura di destra o di sinistra, di cultura laica o religiosa. Pasolini era un comunista ‘atipico’. E il suo rapporto col Pci, che non gli aveva mai perdonato la propria omosessualità e il suo gusto per lo ‘scandalo’, fu sempre assai sofferto.
Per questo motivo, negli ultimi anni era tentato dall’idea di avvicinarsi ai radicali, poiché ne intuiva quella versatilità politica che ha sempre reso il movimento di Marco Pannella assolutamente libero da qualsiasi sovrastruttura di carattere puramente ideologico, completamente svincolato dai tatticismi, dalle doppiezze, dalle ipocrisie. Forse, non fu neanche un caso che Pasolini sia stato assassinato nel 1975, cioè in pieno compromesso storico ‘montante’, ovvero nel momento in cui il Pci era ormai in procinto di realizzare concretamente una forzata, quanto innaturale, operazione di accordo con la Democrazia cristiana.
Personalmente, ho sempre ritenuto quell’elaborazione strategicamente sbagliata: non c’erano pericoli di ‘derive cilene’ nel nostro Paese. E la ‘favola bella’ delle due grandi forze popolari che, all’improvviso, si comprendono e si mettono d’accordo, mi è sempre storicamente apparsa una mera suggestione: il tentativo, da parte dei comunisti, di giungere al potere ‘in punta di piedi’, al fine di portare in qualche modo a compimento la strategia ‘togliattiana’ della ‘mano tesa’ ai cattolici.
Pasolini non ha mai amato il ‘machiavellismo pedagogico’ di Togliatti. E non era affatto propenso a un incontro con i democristiani, da lui descritti come un manipolo di politici corrotti, interessati solamente al mantenimento del potere. Il tema che lega Pasolini alla più profonda cultura popolare italiana, invece, è un altro: quello della disperazione eroica, del non riuscire a tollerare una società che dileggia la diversità e l’omosessualità in un volgare ‘minestrone’ omologativo, che pone ogni problema materiale su di un piano prioritario rispetto a ogni forma di cultura spirituale, morale, valoriale. La qual cosa rappresenta una questione ben distinta, che richiama il Gramsci sociologo delle ‘barabbate’ e della religiosità popolare dell’Alto Lazio.
Non si vive di solo pane. E cercare di depurare, oggi, il suo storicismo materialistico potrebbe rappresentare un fondato tentativo di riproporre, a sinistra, il solo e unico discorso che possa stare in piedi: quello di un nuovo socialismo dei valori e delle idee; quello di una civiltà contadina ormai completamente depauperata e sradicata alle radici; quello di riuscire a ‘strappare’ ai tradizionalisti la tradizione. In ciò, Pier Paolo aveva – e continua ad avere – perfettamente ragione.
“Io so”, aveva scritto, “so quello che è successo in questo Paese”. E ciò significava denunciare quel sottile fascismo da sempre annidato tra le pieghe di interi apparati dello Stato; voleva dire accusare il fascismo stesso di aver fagocitato, fino all’autoidentificazione, ogni germe e ogni forma di cultura idealistica e nazionalista, oggi nuovamente riproposto dietro l’etichetta del ‘sovranismo’ antieuropeista, mentre è solamente la solita e consueta ‘minestra’.
Non è affatto vero che Pasolini fosse ossessionato dalla morte: egli non cercava l’inferno, ma l’innocenza. Era tormentato da quest’idea, perché la riteneva una matrice originaria delle classi popolari e sottoproletarie italiane. E credeva fosse da ‘gaglioffi’ approfittarne, Stato o classe borghese che fosse. E non si trattava di banale ‘buonismo’, né di marxismo critico, come aveva dimostrato ne ‘Le ceneri di Gramsci’, l’opera in cui era riuscito a distinguere l’energia vitale del popolo dalle contaminazioni ‘leniniste’ del grande pensatore sardo.
Quella di Pasolini era autentica poesia, altissima cultura. E oggi, con la caduta degli antichi steccati ideologici, appare inutile perdersi in critiche superate dai fatti e dalla Storia, perché solo tornando alla nostra innocenza si potrà riuscire a ritrovare la nostra più autentica identità, in grado di mettere a nudo i pregiudizi, l’ignoranza, la volgarità, quel sottile classismo che costringe ognuno di noi ad avere soddisfazione psicologica esclusivamente dal possesso dei beni materiali, che cronicizza una società culturalmente provinciale rispetto a tutto il resto d’Europa.
L’italia è un Paese immobile, secondo i più desolanti luoghi comuni della società dell’intrattenimento televisivo, che tende a replicare stereotipi e luoghi comuni. E la femminilità di una donna dev’essere rappresentata, ancora oggi, con i gesti e i modi ammiccanti di una prostituta. Perché una donna italiana può essere solamente questo, oppure limitarsi a mettere al mondo ed educare la prole. Perché solo dove c’è una prole può sontinuare a esistere un proletariato. E solo dove c’è un proletariato, si può continuare a replicare e a riprodurre l’ingiustizia. Ad libitum.
(27 novembre 2020)
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