di Vittorio Lussana #Giustappunto twitter@gaiaitaliacom #Sanremo
Si avvicina Sanremo, ragazzi. Ed è una gran brutta notizia, perché in un Paese di cantanti, governato da politici ‘cantanti’, l’evento mediatico più importante dell’anno non può che essere quello di ascoltare canzoni. “Canta che ti passa”, si diceva una volta. “Ma quando ci passa?”, bisognerebbe chiedersi oggi. Noi non ce l’abbiamo con Claudio Baglioni, per carità: nutriamo rispetto e urbanità per i nostri ‘vecchietti’. Anche perché, il suo festival non è il peggiore che sia mai stato realizzato e non è certo colpa sua se, ogni tanto, emerge l’insopportabile melassa conformista di questo Paese. Sanremo è diseducativo: è un grande ‘calderone’, che conduce giovani e meno giovani a mettere sempre tutto quanto dentro a un unico ‘calderone’. Non educa a scegliere, ma ad accontentarsi di quello che passa il ‘convento’. Sono i due volti dell’Italia, quelli che, in genere, emergono: da un lato, i tradizionalisti neo-melodici; dall’altro, i finti ‘internazionalisti’ rivoluzionari. I primi sono una ‘palla’ assurda; i secondi, ci donano sempre quell’idea di ‘rock edulcorato’ da cantanti nasali e a gola stretta, sintomo di repressione culturale e anche sessuale. Sanremo è un po’ l’emblema di un Paese di scopritori dell’acqua calda. Penso spesso a certi nostri giovani artisti emergenti, che sognano di esordire proprio sul palco dell’Ariston: si tratta di una deviazione pericolosissima, che produce la convinzione che, per avere successo, si debba per forza passare di lì. Tutto ciò proviene dall’idea di sentirsi un personaggio veramente di livello, un artista particolare, senza rendersi conto di essere uguale a tutti gli altri. Gli artisti di successo più recenti non riesco neanche a distinguerli gli uni dagli altri: sembra sempre di averli già visti da qualche parte, ma non si sa bene dove. Si confondono tra loro. Giorgio Gaber, invece, aveva un naso che lo connotava perfettamente: era lui, non potevi sbagliare. Un naso che possedeva la perfetta proprietà di se stesso: una reale autenticità. Lucio Dalla era un altro stranissimo, con tutti quei peli che gli facevano da ‘cornicetta’. Adriano Celentano era matto ‘scocciato’ già negli anni ‘60. E Domenico Modugno possedeva una teatralità che lo identificava immediatamente sia per il suo modo di cantare, sia nelle sue gestualità. Ho faticato interi decenni a far comprendere ad amici e lettori che il testo di ‘Volare’ era una metafora dell’amplesso sessuale: venivo preso per pazzo. C’è stata gente che, nella propria vita, ha deciso di fare fare il pilota d’aerei a causa del testo di quella canzone lì. La quale, invece, parla di tutt’altro. Tutti a ridere e a pensare che stavo ‘sparando’ una ‘cazzata’. Invece, era tutto vero. C’è persino chi mi ha contattato dopo interi decenni, per dirmi: “Ho scoperto che avevi ragione tu…”. E oggi, invece? Di cosa parlano le nostre ‘canzonette’? Quali drammi amorosi raccontano? Quali figure di giovani uomini o di giovani donne intendono rappresentare? Non è dato sapere: sono tutti in confusione. Poi, ci sono quelli che mi dicono: “In realtà, tu guardi il Festival per parlarne male”. E’ esattamente così: il Festival di Sanremo stimola enormemente tutto il mio animo critico. Sento cose che non si possono sentire. E ne vedo altre, che non esistono in nessun posto del mondo: solo noi italiani possiamo essere così. Giuro che trovo più interessante un documentario sull’Angola marxista post coloniale. Oppure, quello dedicato ai pastori sardi degli anni ’50, che Rai Storia fa passare per disperazione nelle notti d’estate. Il Festival di Sanremo, io lo guardo per puro masochismo. Per l’insensata voglia di farsi del male. E’ la stessa sensazione di quando devi andare dal dentista: una cosa che terrorizzava persino Adolf Hitler. Ce l’avevamo noi, la vera ‘arma segreta’ per vincere la seconda guerra mondiale: il Festival di Sanremo. Sono certo, che avremmo costretto alla resa chiunque. Per struggente disperazione.
(1 febbraio 2019)
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