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Non parlare di Sanremo dopo le stecche dei Pooh è davvero quasi impossibile

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Pooh 2016 Sanremodi Il Capo

 

 

 

 

 

Chiamateci snob, ma davvero non seguiamo quasi mai il Festival di Sanremo; e la gestione Conti è un’ulteriore buona ragione per non seguirlo. Succede però che ci siano amici che ti invitano a cena e tu dimentichi che c’è il Festival e quando arrivi ce ne sono già otto lì pronti al via a televisore acceso. Così che cedi alla violenza, e alla maggioranza, e ti appresti a passare la serata con i tuoi amici, che è ciò che conta. Carlo Conti, abbronzata e miniaturizzata imitazione di Pippo Baudo, è un’imitazione infinitamente meno colta dell’originale, meno raffinata e meno pronta intellettualmente, ma ugualmente finto-caciarona, ed è imbarazzante; ma è campione di ascolti. L’Italiano è fatto così. Non sopporta quello che chiama radicalismo intellettual-chic, perché ritiene intellettuale tutto ciò che esula dalle due cose che mediamente conosce. E Carlo Conti nella sua ignoranza da piccolo schermo è l’omino perfetto. Lo so. State pensando che sono invidioso. Non avete idea di quanto siate lontani dalla verità. Carlo Conti costruisce però uno spettacolo perfetto per i gusti dell’Italiano medio che conosce due cose; gli regala il “revival”, lo fa sentire giovane, lo riporta alla sua giovinezza, gli porta i Pooh completi di Riccardi Fogli. E si è trattato dello spettacolo più patetico cui abbia avuto la ventura di assistere. Robi Facchinetti classe 1944, completamente stonato, che si ostina a cantare sulle stesse ottave di trent’anni fa alle quali, ahimé, non può nemmeno lontanamente più aspirare. Dodi Battaglia che continua disperatamente ad imitare i riff di Bryan May come se geni non si nascesse, Stefano D’Orazio che intelligentemente ha detto ciao all’avventura Pooh molti anni fa. Red Canzian in versione tacchino che regala un geniale “Anche noi siamo umani”, inconsapevole, mentre vaneggia sull’unità e sull’amicizia in perfetto italico buonismo e poi Riccardo Fogli, stesso vibrato, stesso sorriso, stessi capelli (hanno solo cambiato colore) e – come gli altri – stessa testardaggine nel cantare sulle ottave di trent’anni fa. Sbagliano persino i cori che diventano un’accozzaglia di note stonate, terze che mancano, quinte che gridano e tutto è più o meno mono-tono. Il pubblico impazzisce (sta qui la genialata di Carlo Conti) perché della musica non gliene frega niente, deve trasmettere al telespettatore bue (ci sono anch’io, ahimè) che è parte di un evento storico e se i Pooh sono patetici e stonati poco importa, sono un mito del passato e quindi riempiranno gli stadi.

Il mondo della musica in Italia, e Rai e Conti vari sono i peggiori responsabili, guarda a trent’anni fa in perfetta sintonia con i dati di ascolto televisivi popolati da ultracinquantenni, dato che la generazione 2.0 fruisce lo schermo secondo i fattacci suoi. Belli i pantaloncini neri attillati da ventenne di Dodi Battaglia in perfetta pendent col capello recen-tinto, appena accennata la giacca rossa con svirgolamenti neri sulle maniche di Red (omen nomen) Canzian che ha la stessa pettinatura dal 1951 (che è anche l’anno della sua nascita). Spettacolo peggiore non potevo vederlo. Ma ero coi miei amici. Ed andava bene anche così. Capito cosa voglio dire?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(12 febbraio 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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