di Mila Mercadante twitter@mila56170236
Odore di frittura, di deodoranti, di pipì, e poi nei bar e nei negozi il frastuono perenne delle canzoni commerciali che d’estate parlano sempre spagnolo, e la volgarità, gli spintoni degli sconosciuti accalcati nella metro, le luci sinistre dei neon nei sottopassaggi, le buche del manto stradale e soprattutto la spazzatura, le cartacce bisunte delle pizze al taglio gettate mentre si passeggia, le bottiglie di birra lasciate sui muretti oppure finite in frantumi sotto le ruote di un motorino che zigzaga sul marciapiedi. Scritte su mura antiche, panchine occupate da ubriachi dormienti, fontane che sembrano immensi bidet perché i turisti vanno a metterci a mollo piedi stanchi e arrossati. Questa è la grande città, la bella, bellissima Roma. Troppo sporca, dicono tutti, e aderiscono subito al richiamo di Alessandro Gassman: #Romasonoio. Ogni volta che parte un hashtag con “io sono” qualcosa, c’è sempre da mettere le mani avanti per proteggersi da vigorose folate di demagogia. Si metteranno a pulire sotto casa, ognuno nei propri quartieri, e andranno in giro con scope, ramazze e palette a raccattare immondizia perché questa è civiltà, e perché un buon cittadino ha coscienza e amore e deve dare una mano, imparando a proprie spese che meglio sarebbe non sporcare affatto. Quanto durerà l’impresa? Fino a ferragosto? Fino alla privatizzazione del servizio? Di solito è così che si comincia a ventilare l’idea di privatizzare: si tolgono ai cittadini i servizi essenziali causa mancanza di fondi, li si esaspera e zac, gli si mette la pulce nell’orecchio.
Alessandro Gassman è stato molto apprezzato, la sinistra del fare s’è levata per sostenerlo e ringraziarlo, dalla Melandri al sindaco la ola dell’entusiasmo ha contagiato politici e cittadini. Davvero basta così poco per rimettere in sesto una città? Non solo Roma, beninteso, ogni città ha le sue pecche, ma non si può pensare seriamente di affrontare il degrado come se si trattasse di ripulire una spiaggia con l’aiuto dei boy scouts. Una città non è un lido, una città malridotta è uno specchio, un libro, è il diario della Storia. Quando sfugge di mano, la città pronuncia un anatema ben pesante e mica ci lascia proseguire come se niente fosse: si puliscono non le cause ma gli effetti più elementari e vistosi. Con gli appelli si suscita nella collettività il perverso piacere della mobilitazione “buona”: si agisce con l’idea di rimediare alla propria cattiva coscienza espiando col beau geste, mentre in realtà si conferma il potere di chi dei cittadini se ne infischia. Come napoletana mi viene da ridere: in Campania è stato perpetrato per 17 anni un ecocidio di proporzioni bibliche con la compiacenza delle istituzioni nazionali e regionali, delle industrie del nord e delle mafie. Nel silenzio. Quando se n’è parlato era già troppo tardi. Come milanese mi verrebbe da ridere lo stesso: poco distanti da Expo vi sono terreni in cui di notte sono stati avvistati di recente camion che vanno a sversare illegalmente nelle buche altro terreno, naturalmente altamente inquinante. Come pugliese, come abruzzese, come piemontese, riderei di tutto il can can mediatico sulla sporcizia della capitale, che rappresenta il nostro biglietto da visita, la cartolina del paese intero.
Stranieri a casa nostra, i posti in cui siamo cresciuti non li riconosciamo più e non è certo questione di spazzatura. Il degrado non è una strada sporca. Il degrado è qualcosa che fa sentire scomodi, inadeguati, qualcosa che toglie il tempo di dedicare tempo alla gente, qualcosa che separa, che divide, che abbrutisce, che ti si rivolta contro e che niente ha a che fare con le bottiglie rotte e le carte bisunte. Non è cattiva musica e non è un cattivo odore: il degrado è antropologia, è non fidarsi più, è perdere il senso d’appartenenza, è guardare gli altri come nemici, è non saper decidere, è sentirsi ingannati e ingannare. Il degrado viene da lontano, sopprime i talenti e scoraggia i ragazzi come un uccello rapace. Il degrado di una società e di una civiltà logora il gusto dell’epopea, toglie di mezzo l’epica, le idee incandescenti, l’euforia. Roma e tutte le altre città italiane sono teatri della concussione e del disordine istituzionale: puliamole pure tutti insieme se questo ci fa sentire meglio, a patto di non dimenticare che si tratta di maquillage, e che si paga non più per ricevere servizi, ma solo perché altri riscuotano.
(28 luglio 2015)
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