di Il Capo
Seguo l’atletica con grande piacere, da sempre. Da quando – ragazzino – la praticavo con ottimi risultati salvo poi fare altre scelte. In quello sport o si èedei grandissimi campioni e si ha un carattere d’acciaio o tutto il resto è noia. Ho scelto altre strade, ma non mi perdo una gara. Arrivando ad organizzarmi le vacanze in modo da seguire i vari campionati europei, mondiali, coppe del mondo e bla bla bla…
Mi ha fatto sorridere seguire le gare degli atleti italiani non per il risultato, negli sport individuali è la sfida con sé stessi che conta, ma per l’atteggiamento che i bravi itatleti propongono all’italico popolino televisivo nell’intervista post eliminazione: sono tutti uno “Io speravo…”, “Avrei voluto che…”, “Mi sarebbe piaciuto…”, come se nello sport, come nella vita, ci si aspettasse che qualcuno dall’alto intervenisse per far rompere le gambe a tutti gli avversari in modo che il bravo itatleta possa vincere la gara che sperava di vincere.
“Non ero venuto qui per questo…” dice uno. E per cosa eri venuto, per vincere con tempi mondiali quando non ne hai i mezzi? Meglio passare oltre.
Di tutt’altra pasta coloro che vincono: la povera Elisabetta Caporale, la traduttrice RAI che parla male le lingue che parla e traduce peggio le lingue che pretende di conoscere, rimane basita quando alla domanda “Te l’aspettavi?” che rivolge agli inglesi vincitori dei 100 metri piani maschili e dei 100 metri ostacoli femminili si sente rispondere “Naturalmente me l’aspettavo, vengo qui per vincere non per sperare di farlo…”.
Di tutt’altra pasta? Può anche darsi. Certo è che l’italico lamento dello sperare (chi vive sperando, com’è che moriva?) riportato allo sport, suona patetico come le scuse di un ladro preso con le mani nel sacco che dice di non avere nessuna colpa del furto, dato che è l’altissimo che governa la vita degli uomini.
(14 agosto 2014)
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