di Fabio Galli
In un paragrafo del “Mysterium Coniunctionis”, Carl Gustav Jung scrive: «Il singolo individuo è il portatore effettivo della vita psichica. È lui che soffre e gode, non la collettività astratta. Il valore morale, in ultima analisi, risiede nell’individuo e non nel numero». Questa affermazione, spesso relegata ai margini della riflessione junghiana, può essere invece assunta come punto di partenza per una più ampia meditazione sull’individuo moderno e sulle forze che ne minacciano l’integrità.
Jung individua in modo lucido e profetico una delle tendenze dominanti della modernità: la progressiva dissoluzione del soggetto in strutture collettive impersonali – la nazione, la classe, l’ideologia, e più tardi la statistica, l’algoritmo, il mercato globale. Per il fondatore della psicologia analitica, il pericolo non sta solo nell’omologazione culturale o nell’oppressione politica, ma in un vero e proprio annientamento della funzione simbolica dell’io, cioè della sua capacità di dare forma al senso.
Nel solco di questa intuizione si possono leggere, ciascuna secondo il proprio registro, le riflessioni di altri pensatori del Novecento che hanno posto al centro del proprio lavoro teorico la crisi dell’individualità e le forme della sua resistenza. In particolare, Simone Weil, Hannah Arendt, Albert Camus e Pier Paolo Pasolini hanno indagato, da prospettive etico-politiche, estetiche o spirituali, i modi in cui l’“io” può ancora emergere come figura non pacificata e non conciliabile con le logiche dominanti.
Simone Weil, in “La condition ouvrière”, elabora un pensiero radicale dell’attenzione al dolore concreto e alla disintegrazione dell’individuo nel mondo del lavoro. La fabbrica non è solo un luogo di sfruttamento economico, ma il teatro di una frantumazione metafisica: l’operaio perde il senso del tempo, del gesto, della parola. Weil non propone un ritorno romantico alla totalità, ma una resistenza fondata sulla percezione dell’altro come essere sofferente, sulla consapevolezza che l’autenticità passa per la capacità di non distogliere lo sguardo.
Hannah Arendt, da parte sua, elabora un pensiero della responsabilità che si declina nella forma del giudizio personale. In “Eichmann in Jerusalem”, la “banalità del male” non è la mediocrità dell’assassino, ma la sua incapacità di pensare: Eichmann non è un mostro, ma un burocrate perfettamente inserito in un sistema che premia l’obbedienza cieca. La riflessione arendtiana obbliga a considerare l’autenticità non come semplice differenza soggettiva, ma come condizione minima della convivenza democratica: solo chi pensa può discernere, e solo chi discerne può agire in modo giusto.
Albert Camus, nel suo “L’Homme révolté”, insiste sulla rivolta come gesto etico primario. Anche per lui, l’individuo si trova davanti a una scelta: accettare l’assurdo o affermare un limite. Il “no” del ribelle non è un atto distruttivo ma costruttivo: è il primo passo verso la dignità, la misura, l’alleanza. Camus cerca una via che non sia né quella della trascendenza religiosa né quella della negazione nichilista: una terza posizione, fragile ma essenziale, in cui l’io resta vivo perché non abdica al proprio desiderio di giustizia.
Infine, Pier Paolo Pasolini – forse il più radicale tra questi autori – individua nella società dei consumi una nuova forma di totalitarismo, capace di uniformare il linguaggio, i corpi, i desideri. Nei suoi scritti civili, come nelle interviste televisive e nelle opere cinematografiche, Pasolini denuncia la distruzione delle culture popolari e l’invenzione di una falsa libertà, dove l’individuo non è più represso ma persuaso, sedotto, inglobato. La sua è una critica che anticipa molte delle questioni oggi al centro del dibattito culturale: l’estinzione delle differenze, la mercificazione del sé, l’identità come performance.
A unire queste diverse prospettive è una comune fiducia – a volte tragica, mai rassegnata – nella possibilità che l’individuo, pur dentro strutture oppressive, possa ancora agire, pensare, testimoniare. L’autenticità, in quest’ottica, non è una categoria psicologica o esistenziale, ma una postura critica: un modo di essere nel mondo che rifiuta la resa alla ripetizione e alla replica.
Rileggere oggi “Mysterium Coniunctionis” significa allora restituire centralità a una domanda che attraversa tutta la modernità: come può sopravvivere l’io quando tutto lo spinge alla sparizione? E la risposta, come mostrano Jung e gli altri, non può che consistere in un atto: continuare a pensare con la propria testa, anche e soprattutto quando sembra inutile. Perché ogni reale trasformazione, anche collettiva, inizia sempre da un individuo solo.
(13 maggio 2025)
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