di Vittorio Lussana, #Giustappunto
Roma è capitale d’Italia da 150 anni. Ma si tratta di una metropoli che proprio non riesce a stare al passo con le altre grandi metropoli europee, né ad affrontare alcuni suoi cronici problemi con la medesima lungimiranza, urbanistica e sociale, di Madrid o della stessa Parigi, con cui è ufficialmente ‘gemellata’. Pur possedendo il più grande patrimonio storico, culturale, monumentale e archeologico del mondo intero, la ‘città eterna’ è un esempio, del tutto atipico, di megalopoli totalmente priva di una vera e propria area metropolitana. Il territorio di pertinenza comunale si estende per più di 150 mila ettari: una enormità, rispetto ai 19 mila di Milano e ai 13 mila di Torino. Un’area che non è mai stata dotata di una ‘frangia semiurbanizzata’, da sempre affetta da un parassitismo incurabile, totalmente priva di infrastrutture economiche o di autonome capacità produttive.
Sin dai tempi dello Stato pontificio, Roma vive di redditi importati e non conosce praticamente nulla del capitalismo moderno. Dopo averla circonfusa con un ‘goffo’ alone di maestà, il regime fascista, ormai allo stremo, mediante una legge emanata nel 1941 tentò di dotarla di una zona industriale, formata dai comprensori di Tor Sapienza, lungo la via Tiburtina e di Grotte Celoni, sulla Casilina. Ma tutto rimase sospeso a causa del conflitto mondiale. E nell’immediato dopoguerra, quando il Consiglio comunale di allora si decise a riprendere in mano la questione, dopo lungaggini interminabili riuscì finalmente a varare un piano particolareggiato di opere pubbliche. Tuttavia, quella decisione arrivò con un ritardo tale, che i termini delle agevolazioni fiscali tesi a favorire nuovi investimenti erano ormai scaduti. E più nessuno si sognò di rischiare danaro in favore di lande desolate, che tali rimasero per altri lunghissimi decenni.
A causa di ciò, Roma non ha mai potuto avere delle vere industrie, in grado di assorbire il suo irrimediabile tasso di disoccupazione. Sin dal 1870, la capitale d’Italia è stata investita da possenti ondate migratorie provenienti dal Mezzogiorno. Ma essendo totalmente sprovvista di ogni ‘valvola di sfogo’, essa ha finito col diventare la vittima designata del piccone e della cazzuola: ogni metro quadrato di suolo è stato considerato fabbricabile, mentre case e palazzi hanno iniziato a protendersi verso l’alto nella più totale assenza di vincoli urbanistici e nella più allegra inosservanza delle poche norme vigenti, provocando un’assurda dilatazione a ‘macchia d’olio’.
Già durante il fascismo, quando gli ‘sventramenti’ di Marcello Piacentini avevano espulso brutalmente i ceti popolari dal centro storico, cominciarono a sorgere, lugubri e malsane, le ‘borgate’: quei ‘quartieri-satelliti’ descritti con tanto dolore da Pier Paolo Pasolini. Seguendo il modello di Acilia, scaraventata nel 1924 all’interno di una ‘sacca malarica’ lungo la via Ostiense, tra il 1930 e il 1940 l’Istituto per le case popolari e altre società immobiliari costruirono, in seguito, i quartieri di Villa Gordiani, Valmelaina, Tufello, Tiburtino III, Pietralata, Quarticciolo, Trullo, Primavalle. Tutti arcipelaghi sconnessi, urbanisticamente incoerenti, ai quali sono stati in seguito affiancati i reclusori, totalmente abusivi, di San Basilio, Prenestina, Torpignattara, Tormarancio e Centocelle.
Deputate ad accogliere gli immigrati più poveri, le borgate non furono affatto ‘addossate’ alle ultimi propaggini della città, bensì vennero separate da lunghe strisce di verde ‘brado’. Terreni che nel dopoguerra improvvisamente cominciarono a salire di prezzo, scatenando una speculazione edilizia senza scrupoli. Se si considera che, tra il 1945 e il 1975, Roma è stata invasa da circa due milioni di italiani provenienti da ogni parte del Paese, si può ben comprendere come certi suoi ‘acciacchi’ abbiano finito col generare una situazione complessiva assolutamente invivibile, che ha privato la capitale d’Italia di un suo quadro sociale effettivo: ogni rione è stato trasformato in un satellite a sé stante. E le periferie hanno finito col diventare degli enormi ‘quartieri dormitorio’.
Per tali motivi, i quasi due milioni di ‘nuovi romani’ giunti dall’Abruzzo, dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia dovettero adattarsi all’offerta di lavoro propria di una megalopoli di burocrati, consumatori e turisti: il 60% entrò nell’amministrazione dello Stato; il 16% venne impiegato nei settori del commercio e dei trasporti; il restante 24% non poté far altro che lasciarsi assorbire dai sempiterni e onnipresenti cantieri edilizi. L’arretratezza delle attività terziarie permise loro di perpetuare l’artigianato delle regioni di provenienza, per cui gli abruzzesi sono diventati calzolai; i molisani arrotini; i sardi pasticcieri e così via. Ma se si eccettuano coloro che sono entrati a far parte della Pubblica amministrazione – in larga parte siciliani – la maggioranza di quegli immigrati ha potuto solamente adeguarsi alla precarietà stagionale del mestiere di muratore.
Insomma, una città come Roma, ricca di un ghiotto bottino di parchi privati e con un patrimonio senza eguali di beni artistici e archeologici da salvaguardare, necessitava di un piano regolatore che ne salvasse le ultime vestigia dagli ‘artigli’ di costruttori senza scrupoli. Anche perché, sin dagli anni ’50 del secolo scorso, orrendi agglomerati ‘intensivi’ la stavano letteralmente afferrando ‘alla gola’, mentre una lottizzazione selvaggia delle aree prospicienti l’Appia antica segnalava come molti ricchi della ‘Roma bene’, ormai stanchi e disamorati dei Parioli, si erano fatti costruire ville lussuosissime, incastonando tra le pareti i numerosi ruderi archeologici ritrovati in mezzo ai prati. Perciò, nel 1954, il Consiglio comunale decise finalmente di incaricare un Comitato tecnico – formato da ottimi urbanisti, quali Ludovico Quaroni e Luigi Piccinato – con il compito di anticipare i nuovi lineamenti di una razionale ‘capitale del futuro’.
Nel novembre del 1957, il piano era pronto: per rompere l’accerchiamento delle speculazioni, arrestare la ‘macchia d’olio’ dell’abusivismo edilizio e alleggerire il peso insostenibile della mole di servizi che grava da sempre sulla ‘città vecchia’, esso prevedeva un’espansione verso sudest, da realizzarsi attraverso una grande arteria di scorrimento munita di centro direzionale. Inoltre, allo scopo di dirottare un traffico in entrata e in uscita interamente scaricato – esattamente come oggi – sulle strade consolari, quel piano disegnava un sistema viario imperniato sulla costruzione di un primo tratto dell’attuale Grande Raccordo Anulare. Infine, nell’intento di porre un freno al saccheggio dei parchi (Villa Chigi, Villa Savoia, Villa Borghese, Villa Torlonia e Villa Doria Pamphili) imponeva una conservazione rigorosa di tutto il centro storico, oltre a una serie di espropri di pubblica utilità.
Il ‘piano’ non fece nemmeno in tempo dall’essere presentato ufficialmente, che subito alcuni esponenti degli ‘interessi lesi’ inscenarono una mezza sommossa: i commercianti gridarono alla spoliazione; la Società generale immobiliare si ‘stracciò le vesti’ accusando il Comitato tecnico di attentare alla proprietà privata; gli enti ecclesiastici, che da secoli possiedono alcuni ‘feudi’ alla periferia occidentale (in particolar modo i Salesiani) spronarono i propri ‘protettori’ in Campidoglio. Risultato: l’allora maggioranza consiliare, guidata dal sindaco Urbano Cioccetti e costituita da democristiani, liberali, monarchici e missini, negò a quel piano la propria approvazione e, nel giro di due anni, ne fece predisporre un altro, redatto da docili funzionari, il quale avviò uno sviluppo urbanistico verso sudovest, in ‘direzione mare’, mantenendo la strutturazione monocentrica della città e riducendo il progetto di costruzione dell’anello autostradale a un mero segmento della ‘Autosole’, nonché approvando un sostanziale accrescimento della città per ‘addizioni spontanee’, che ovviamente ‘santificarono’ definitivamente la crescita a ‘macchia d’olio’ con una gigantesca sanatoria tutti gli scempi compiuti.
Dopo un decennio di ‘massacri’ inauditi e solamente ‘all’alba’ del 1962, una nuova amministrazione di centrosinistra riuscì ad approntare un piano regolatore finalmente ragionevole, che introdusse criteri sino ad allora sconosciuti alla storia urbanistica della ‘città dei 7 colli’: a) il principio della ‘destinazione d’uso’, con il quale si obbligarono i piani particolareggiati a specificare le attività consentite nelle diverse zone (centro storico, trasformazione edilizia, ridimensionamento viario e così via); b) il parametro della ‘superficie utile’, che permise di eliminare gli innumerevoli ‘trucchi’ legati al cosiddetto ‘rispetto dei volumi’, prescritto nel 1959; c) il concetto di ‘progettazione unitaria’ dei comprensori, da attuarsi mediante consorzi fra i proprietari, in ossequio a precise norme riguardanti la densità e la percentuale dei suoli assegnati a residenza o a servizi quali scuole, strade, verde, asili, ospedali e parcheggi. Ma anche tali buoni propositi valsero a poco: il ricorso continuo a uno stillicidio di varianti, la macchinosità delle procedure, una sfacciata violazione delle regole fondata sul convincimento che nulla di ciò che era stato costruito potesse essere demolito, vanificò quel nuovo ulteriore ‘piano’ e, nel 1964, i romani furono costretti ad assistere alla devastazione del parco di Castel Fusano e alla trasformazione in zona residenziale del recinto della tomba di Cecilia Metella.
Ecco quali vicende hanno trasformato Roma in una città ostica e invivibile, in cui attraversarla per andare da un suo capo all’altro diviene un’impresa epica, dove le sue vecchie linee ferroviarie sotterranee hanno dovuto attendere, in media, 25–30 anni per essere realizzate e quelle nuove vengono generalmente considerate un lontano ‘miraggio’, che andrà a vantaggio delle future generazioni. Essere romani significa, oggi, operare, lavorare e agire con una lucidità che discende direttamente dalla ‘rabbia’, poiché stanchi di vedere una folla anonima che si accalca sugli autobus e le metropolitane nelle ore di ‘punta’; che mangia nelle tavole calde a orari prestabiliti; che cammina spedita per la strada a passo militare; che alla sera ha solamente il tempo di guardare un po’ di televisione; che fa all’amore frettolosamente negli abitacoli delle automobili. Perché la coazione al consumo, a consumare persino noi stessi, significa sciupare l’unità del nostro ‘Io’ interiore, generando forme di dissociazione che ci condannano alla solitudine di massa.
(5 febbraio 2021)
©gaiaitalia.com 2021 – diritti riservati, riproduzione vietata
Iscrivetevi alla nostra newsletter (saremo molto rispettosi, non più di due invii al mese)