di Giancarlo Grassi
Nella direzione PD del 13 febbraio non c’è stato un intervento particolarmente brillante, se non quello misurato ed intelligente di Piero Fassino che dice cose troppo intelligenti per essere compreso da chi è divorato dall’astio e non cerca soluzioni ma va alla guerra.
Pierluigi Bersani è salito sul palco molto teso, con voce tremante, e non ha fatto una proposta politica che fosse una. Ha evocato cataclismi, morte e distruzione, ha parlato di una destra che si attrezza in tutta Europa, come se la vedesse solo lui. Ha poi minacciato: scissioni, “succede una roba seria”, non si sa “come andrà a finire”, come se la scissione questi qui non l’avessero già decisa chissà quanto tempo fa. Alla fine della fiera, attorno alle 19.30, si è andati al voto e la mozione della maggioranza che apre di fatto il Congresso è stata votata con 117 voti a favore, 12 contrari e 5 astenuti (non son sicuro delle cifre, ma insomma, maggioranza schiacciante). Voto che ha escluso la mozione della minoranza, lunghissima, ambigua, che attaccava sottilmente la stabilità del governo Gentiloni. Parleranno di colpo di mano della Presidenza di Orfini, che non c’è stata. Dopo Bersani parlano Emiliano inefficace, inascoltabile, impalpabile, ectoplasmico: leone sui giornali e bambina impaurita di fronte a Renzi; Speranza per il quale non ci sono aggettivi e Rossi che ha espresso posizioni condivisibili. Tutti, indistintamente, hanno nascosto con fatica – ed alcuni non sono proprio riusciti a farlo – il rancore personale verso la figura di Matteo Renzi che ha chiuso la Direzione con parole di apertura e dando il “la” al Congresso, come chiesto anche dalla minoranza prima che cambiasse idea tre, quattro, cinque, sei, sette volte in pochi giorni.
Bersani oggi interviene su Repubblica parlando della stabilità del governo Gentiloni ed accusando la direzione di averne parlato in “diretta streaming”. Colpevolmente dimentica, il buon Bersani, ma dev’essere l’età, che la questione della stabilità del governo Gentiloni è stata tirata in ballo dalla sua minoranza, quella che fa capo a Massimo D’Alema che si nasconde dietro i suoi pensando di rendersi invisibile, e dalla mozione bocciata, confusamente spiegata da Nico Stumpo, un altro genio che viene dal passato convinto di essere moderno. E’ sempre il solito burattinaio a tirare le fila.
Il buon Bersani si è già dimenticato di avere chiesto il congresso, ma anche no, per una settimana abbondante, cambiando idea quando Renzi ha detto “andiamo a congresso”, dice ora ai cronisti che la “scissione è già avvenuta” perché il PD ha perso “il suo popolo”. Quale? Quel 40% che ha votato sì al referendum sposando appieno la riforma di Renzi, percentuale così vicina a quanto acchiappato dal PD alle ultime Europee? O quelli che hanno votato “No” seguendo i deliri di Bersani e D’Alema e compagnia Speranza che hanno fatto saltare le riforme, per l’ennesima volta, per mantenere le chiappe sulla poltrona ed il potere nel PD?
Bersani è solo l’ombra del politico acuto che è stato uno dei più illuminati presidenti della Regione Emilia Romagna; è un uomo irriconoscibile che alle proposte politiche ha sostituito il catastrofismo prono ai voleri di Massimo D’Alema, di Gianni Cuperlo, di Roberto Speranza e di coloro, con Emiliano, che la scissione l’hanno già decisa e che cercano in ogni modo la maniera di far cadere la responsabilità sul segretario che ieri, giustamente, ha rivendicato i risultati dei suoi mille giorni di governo e fatto ammenda dei suoi errori.
A Repubblica invece Bersani racconta che bisogna dire “no a un congresso cotto e mangiato con una spada di Damocle sul nostro governo mentre dobbiamo fare la legge elettorale e mentre dobbiamo fare le elezioni amministrative. Non è il messaggio giusto da dare al Paese. Siamo il partito che governa, dobbiamo garantire che la legislatura abbia il suo compimento normale e che il governo governi correggendo qualcosa che abbiamo fatto e che il congresso si faccia nel suo tempo ordinario cioè da statuto parte a giugno e si conclude a ottobre, sarebbe questa la cosa più normale. Non ho sentito dire se vogliamo accompagnare il governo fino alla fine della legislatura”. Dimentica, Bersani, che è stato il documento della minoranza cui appartiene a mettere in dubbio il sostegno al Governo Gentiloni, non l’attuale maggioranza del partito. Se la rilegga (magari abbiamo capito male, Orfini l’ha letta in fretta).
Farebbe meglio a dire, l’uomo che parla un emiliano così stretto da sembrare una caricatura, dovrebbe avere il coraggio di dire che lui ed i suoi – o meglio lui e tutti quelli governati da D’Alema – di spaccare il PD lo hanno già deciso: resta da decidere se si inventeranno qualche scusa ideologico-politica o se per la prima volta avranno il coraggio di ammettere che la loro è una “scissione per invidia”. Sarebbe già un bel passo avanti riuscire ad evitare l’ennesimo partitino a sinistra del 4% (è vero D’Alema ha detto che l’eventuale nuovo partito vale il 10%,ma ha anche detto che il sei mesi si riscrive la Costituzione, ne sono passati tre e non ha ancora fatto niente). La “Scissione per invidia” è servita.
(14 febbraio 2017)
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