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Giustappunto! di Vittorio Lussana: “Smentisci te stesso”

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Vittorio Lussana 02di Vittorio Lussana    twitter@vittoriolussana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ascesa di Donald Trump e il successo ‘sfiorato’ dall’estrema destra austriaca non sono due fenomeni perfettamente comparabili. Tra i due eventi sussistono, indubbiamente, molti punti di contatto, ma anche alcune differenze sostanziali. L’avanzata della destra austriaca è assai più simile alla ‘virata’ nazionalista francese, che ha portato Marine Le Pen a fare incetta di voti in tutto il territorio transalpino. Il successo di Donald Trump, invece, deriva da una spinta iperconservatrice, puritana e classista, che l’America tradizionalista vorrebbe imporre alla società statunitense. Gli esiti sono molto simili a quanto sta accadendo in Europa, ma i presupposti causali sono distinti. Una parte della società americana è molto orgogliosa e, tendenzialmente, preferisce ripiegarsi su stessa per concentrarsi ad affrontare i propri problemi interni, come se l’Europa e il resto del mondo quasi non esistessero. Ma gli Stati Uniti sono comunque una federazione di Stati: una forma di governo che nessuno intende porre in discussione. Gli Usa non hanno il problema del Texas o dell’Arizona che vorrebbero uscire dall’Unione. Qui in Europa, invece, sono i singoli nazionalismi a ‘depistare’ la popolazione, portandola a credere, per puro ‘crepuscolarismo demagogico’, che i singoli Stati siano attrezzati a risolvere questioni enormi come l’ìmmigrazione proveniente dall’Africa e dal Medio Oriente, il terrorismo fondamentalista islamico, la stessa ‘stagnazione’ economica dettata dalla globalizzazione. Noi europei spesso sorridiamo di fronte al popolo americano, poiché lo giudichiamo composto da ‘bambinoni’ sempre entusiasti, perfino un po’ ingenui nel loro lasciarsi suggestionare da un miliardario che promette ‘mari e monti’. Tuttavia, ribadiamo, il sistema federale americano non è affatto in discussione: siamo semplicemente di fronte al brusco indebolimento dell’ala moderata repubblicana, la quale, dopo i decenni dominati da Ronald Reagan e dalla famiglia Bush, sta attraversando una profonda crisi di leadership. Il Partito repubblicano statunitense, al momento non produce esponenti credibili, capaci di aggregare una serie di interessi economici della società americana. In Europa, invece, siamo di fronte al fallimento di una gestione pseudo-pragmatica del Partito popolare europeo, il quale avrebbe dovuto fornire una visione dell’Unione assai meno basata sul materialismo ‘spicciolo’ del protezionismo economico-finanziario e dimostrarsi politicamente più autorevole verso il mondo esterno. Il fatto stesso che sia la Gran Bretagna, ovvero l’unico Paese che ha mantenuto la propria valuta interna, a voler uscire dall’Ue, la dice ‘lunga’ in merito ai dubbi e alle contraddizioni contro cui stanno ‘cozzando’ le società dei rispettivi Stati europei. Negli Stati Uniti, i fenomeni migratori sono stati già assorbiti e metabolizzati da tempo. Dunque, è molto probabile che lo spostamento a destra della piccola borghesia americana sia semplicemente una manifestazione d’orgoglio e di testimonianza e non soltanto un ‘arroccamento’ isolazionista. La ‘partita’, insomma, per Hillary Clinton è divenuta insidiosa, ma non è ancora persa. Anche perché, l’eventualità di riuscire a insediare alla Casa Bianca una donna dopo due ‘mandati’ retti da un presidente di colore, rimane un’opportunità che il popolo americano non dovrebbe lasciarsi sfuggire, poiché ciò fornirebbe nuovo ‘smalto’ agli Stati Uniti agli occhi di tutto il mondo, per il suo coraggio nel voler avanzare verso una società più equa e più giusta, in cui nessuna categoria sociale, razziale o di genere risulti penalizzata. Invece, il ritorno ai furori nazionalisti di alcuni Stati del ‘vecchio continente’ poggia sul problema, ben più serio, di un Partito popolare europeo che sembra ave perduto ogni velleità liberale, che ha finito col rinchiudersi nella ‘torre d’avorio’ di una visione ottusa e ‘meccanicista’ dell’economia finanziaria. Un conservatore austriaco, ma anche francese, non voterebbe mai per un candidato socialista o ‘verde’. Tuttavia, la crisi sociale in corso nei rispettivi Paesi dell’Ue, tra cui anche l’Italia, determina una ‘domanda’ di maggiori certezze, ordine e legalità. La ‘nostra’ Giorgia Meloni, per esempio, lascia trasparire quella vecchia e cara impronta ‘sociale’ dell’antico Msi che, a suo modo, cerca di rielaborare una serie di risposte alternative rispetto al moderatismo elitario e ‘buffarolo’ del consueto modello ‘dinastico’ e ‘familista’ all’italiana. La verità, insomma, è che all’interno del perimetro liberale e moderato è mancata, clamorosamente, ogni ‘abbozzo’ di analisi sociale. E ciò sta conducendo gli elettorati tradizionalmente considerati ‘centristi’ verso vetuste forme di irrazionalismo demagogico. Uno ‘scivolamento’ causato, innanzitutto, dall’incapacità del popolarismo europeo nel saper rispondere alla domanda di nuova occupazione proveniente dai ceti meno abbienti, che si sentono da tempo abbandonati. Di converso, sul fronte opposto abbiamo una socialdemocrazia riformista la quale non vuol comprendere che continuare a travestirsi da ‘liberal’ durante un lunghissimo ciclo di crisi macroeconomica, o per lo meno di bassa congiuntura, la sta portando ad assumere soprattutto i ‘difetti’ del moderatismo, senza riuscire a rappresentarne credibilmente i ‘pregi’ e le istanze di riorganizzazione. In un certo senso, non ha del tutto ‘torto’ Stefano Fassina allorquando, pur rimanendo ‘aggrappato’ alla propria impostazione ‘assistenziale’, sembra comprendere, o quanto meno intuire, che dopo la ‘proletarizzazione’ del ceto medio di quasi tutti i Paesi europei, provare a ‘rivendergli’ la formula di un neo-liberismo basato sul mero possesso dei beni materiali, senza alcuna rivisitazione di tematiche anche piuttosto urgenti quali quelle ambientali, climatiche o relative a un più alto ‘standard’ qualitativo della vita quotidiana dei singoli cittadini, rappresenta un ‘abbaglio’ a dir poco ‘accecante’. E ciò è esattamente quanto accaduto sia nel ‘campo’ dei popolari, sia in quello dell’internazionale socialista. Non si tratta di dover scegliere formule ideologicamente più ‘corrette’ rispetto ad altre. Si tratta, più semplicemente, di comprendere come la mera enunciazione di un astratto neo-liberismo rappresenti la formula ‘giusta’ all’intenro del contesto macroeconomico più ‘sbagliato’. Solo ricreando condizioni di quasi piena occupazione, di crescita economica stabile e di rigenerazione di un ceto medio produttivo in grado di assorbire le diverse crisi ‘anticicliche’ del sistema economico-finanziario internazionale, l’Unione europea può rispondere alla domanda di maggiori tutele sociali proveniente dai cittadini, a destra come a sinistra. In caso contrario, lo ‘schiacciamento’ sulle ‘ali’ più estreme non può far altro che generare fenomeni estemporanei, o addirittura opposti. Come, per esempio, l’elezione di un primo cittadino musulmano nella capitale di un Regno Unito che, a sua volta, vorrebbe uscire dall’Ue per andarsi a suicidare per conto proprio. Segnali così discordanti possiedono un’unica causa prevalente: l’annientamento del ceto medio produttivo e della piccola imprenditoria, finalizzato a favorire il ‘gigantismo’ aziendale delle grandi multinazionali. Un errore madornale, compiuto sin dai primissimi anni duemila del XXI secolo. Si doveva ‘puntare’, tutto e subito, sulla formula di una più vivace economia sociale di mercato, anziché rinchiudersi dietro vuoti atteggiamenti e ‘puzze sotto al naso’. Le quali, peraltro, ci hanno condotto verso un neocapitalismo che ha smentito se stesso, negando fiducia e nuova cittadinanza economica alle iniziative delle generazioni più giovani. Un suggerimento, quest’ultimo, che non si è voluto minimamente prendere in considerazione, al di là di qualche isolato ‘complimento’ puramente formale. E le conseguenze di tutto questo sono, oggi, sotto gli occhi di tutti.

 

 

 

 

 

 

 

(26 maggio 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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