di Il Capo
Mancava, diciamo. Mancava l’appello “ai gay” di Giorgio Armani, un uomo, un filosofo, un profeta di pace, che li invita a “non vestirsi da omosessuali”. Da un genio di tale grandezza, cui solo la giovane età toglie quel pizzico di saggezza che dovrebbe preservarci dal dire scempiaggini, ci si aspettava qualche spiegazione in più.
Cos’è il “vestirsi da omosessuali”? Uno che “è uomo al 100% e non ha bisogno di vestirsi da omosessuale?”, la spiegazione è un po’ vaga. Ci piacerebbe entrare nel merito della questione. Lei, Stimato Signore, si veste da uomo o da omosessuale. I suoi modelli come si vestono? E la interessante provocazione, perché di quella deve trattarsi, non può essere una cosa cui si crede sul serio, “gli omosessuali che si esibiscono raggiungendo gli estremi, per poter dire ‘Ah, lo sai, io sono un omosessuale’, questo è qualcosa che non ha nulla a che fare con me. Un uomo deve essere un uomo”, fanno di Lei Stimato Signore, un uomo, un maschione, un maschiaccio, un maschio-omone o uno che non sa tenere la bocca chiusa sentendosi migliore degli altri per quello che pensa di avere raggiunto nel mondo della vacuità che gli ha dato denaro apalate? I suoi vestiti sono da uomo, da maschione, da maschiaccio, da ometto, da maschio-omone o cos’altro?
Sono dichiarazioni rilasciate al Sunday Times e riprese da Repubblica.it che danno la dimensione della feroce intolleranza che anima i top manager italiani nei confronti di chi rivendica diritti sacrosanti: Armani, come i colleghi Dolce & Gabbana, dimentica – oltre che di essere sul viale del tramonto (della vita, non della professione) una cosina tanto risibile come la gratitudine e dimostra di perdere il senno, come troppi suoi colleghi, quando l’intervista con il grande quotidiano solletico il suo ego.
Roba di un fascismo intellettuale da far rabbrividire.
(20 aprile 2015)
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