Dietro lo pseudonimo Soufiane El Khayat si nasconde un conosciuto scrittore e regista italiano che pubblicherà altri racconti con noi nel corso delle prossime settimane.
Buona lettura.
CAFE’ DE FRANCE
– Posso sedermi? –
– No. – rispondo, ma lo ha già fatto.
Rimango di sasso di fronte a tanta faccia tosta. Sono in un bar del centro. Scrivo su tovaglioli di carta con una penna prestatami dal barman.
– Parli francese? –
– Non quando sono in Spagna. –
Sorride. Temo che appartenga alla razza dei ti prego trattami male così mi piacerà tanto di più. Continuo a scrivere. Da tutto il giorno mi girano in testa idee e frasi che voglio fermare. Un problema di prese che spero di risolvere in fretta mi impedisce momentaneamente di utilizzare il mio computer portatile in albergo. Ho pensato al tavolino del bar come a una soluzione. Mi sono sbagliato.
– Sei arrabbiato? – mi chiede il tipo.
– No. Vorrei solo essere lasciato in pace. –
Lui però ha lo sguardo fiducioso di chi non si arrende tanto facilmente, di quello che adesso sei duro con me, ma prima o poi ti innamorerai. Capisco che non mi lascerà perdere. Potrei alzarmi e andarmene, ma non sono io a doverlo fare. Non ho nemmeno il coraggio di mandarlo a farsi fottere. Conosco la solitudine, mi ha fatto compagnia a lungo.
– Se ti disturbo me ne vado. – dice.
– Se ti fossi accorto di disturbarmi non ti saresti nemmeno seduto.-
Lui non raccoglie.
– Sei italiano? – mi chiede. – Io di Rabat.-
– Ma pensa… – guardo di fronte a me. Dall’altra parte della strada, all’angolo con la Medina, una bambina di forse sei anni grida disperatamente vedendo sua madre o sua sorella, non so, venire presa a calci da un gruppo di donne, mentre una decina di uomini si godono la scena senza intervenire.
Scrivo Fuck! sul tovagliolo, poi lo appallottolo e lo getto via.
– Mi chiamo Otman. – dice.
– Io Bruno. –
Rispondo senza guardarlo.
– Perché scrivi? –
– Perché mi piace. –
– E’ il tuo lavoro?-
– Anche. –
– Sei bello. – aggiunge.
Bello io? E da quando? Mi decido.
– Senti Otman, per quanto possa sembrare incredibile non sono qui per trombare. Lo faccio in abbondanza e con soddisfazione dove vivo. E ho i coglioni pieni di essere importunato da persone come te che mi chiedono di scopare e qualche soldo. Vorrei essere lasciato tranquillo a godermi i cazzi miei. Sono stato chiaro? –
– Capisco. – risponde abbassando gli occhi. Non so se sono più infastidito dall’approccio in sé o dal forte senso di finzione che Otman mi trasmette: tutto mi sembra artefatto, finto, preparato, un copione studiato per piacere – a me o a qualcun altro non importa, per poter sognare di avere un compagno che si ama da qualche parte. Un tentativo di una fintavita in un fintoluogo dove si vorrebbe essere senza osare nemmeno di provarci. So che presto o tardi mi chiederà di andare in albergo con lui: so che troverà il modo di scroccarmi qualche dirham. Mentre penso di alzarmi ricomincia a parlare:
– Io non sono come gli altri. – faccio per interromperlo, ma mi ignora. – Faccio il parrucchiere, guadagno settemila dirham al mese, non sono un pezzente come questi qua. – il suo disprezzo per la povertà mi disgusta. – Guardali… Sono sporchi dentro e fuori. Gli unici marocchini degni sono quelli di Tangeri. Tutti gli altri fanno schifo. Ti chiedono di scopare per guadagnare qualche soldo. Non ti fidare di loro. –
– Mi fido di chi mi pare. –
– Io non sono come gli altri… – ripete.
– Non mi interessa. –
– … e un giorno verrai a trovarmi nella mia casa di Rabat e staremo bene… Perché sento che siamo già amici. – forse ha finito. Decido di picchiare pesante.
– Non verrò mai a trovarti. E non siamo amici né lo saremo in futuro. –
– E detesto Rabat. – aggiungo.
– Ci sei stato? –
– Ci sono stato?-
– Hai qualcuno con cui fare l’amore a Rabat? – questa del sesso comincia ad essere una ossessione.
– No. Ho amici.-
Restiamo in silenzio per un po’. L’ostinazione di Otman a cercare la mia amicizia a tutti i costi, o almeno un rapporto che duri più di qualche minuto ha smosso i miei ricordi più recenti, quelli dolorosi. Non ho il coraggio di alzarmi, non ho il coraggio di chiudere questa conversazione che trovo insopportabile: sento il peso del passato di Otman come se fosse mio. Percepisco la sua angoscia, il suo dolore, la sua solitudine. Vedo un piccolo disperato consegnato a un mondo maschile da cui le donne sono escluse, quando ha ancora troppo bisogno di sua madre. Lo immagino usato e abusato. Lo ritrovo adulto e sicuramente senza più una famiglia. Solo. Senza un compagno. E il suo disprezzo è forse tutto quello che gli resta.
– Potremmo cenare insieme. – dice.
Sono fottuto.
Un piccolo ristorante in Mers Sultan, poco distante da casa mia. Non gli ho detto dove abito. Ci sediamo. Mi dice che non vuole mangiare. Io ordino pollo arrosto e acqua naturale. No grazie, niente patate fritte.
– Vedi – attacca – se noi ci piacessimo entrambi, ora potremmo andare a casa tua o a casa mia e fare l’amore fino a non poterne più.
– Io non ne posso già più adesso. – dico sorridendo. – Comunque sappi che ho un compagno, lo amo e non sento il bisogno di nient’altro. Vuoi dirmi perché non vuoi mangiare? –
– Il bancomat mi ha appena ritirato la carta. –
– Puoi mangiare lo stesso. –
– Mi è passata la fame. –
– Come vuoi. –
Mangio in silenzio, lo osservo versarmi l’acqua nel bicchiere e prodigarsi per far sparire tutte le briciole che cadono sul tavolo. Mi sento ribollire.
– Tu mi piaci. – mi dice.
– Tu no. – sono esasperato. – Non mi piace il tuo modo di fare, la tua invadenza. Non mi piace il tuo pensare soltanto ai tuoi bisogni. Detesto chi disprezza gli altri. Non c’è nulla che mi attiri di te. Quando ti sei seduto vicino a me ti ho detto con chiarezza che desideravo stare solo. Te ne sei fregato. Se sono ancora qui con te è perché ho avuto il buon gusto di non mandarti a fare in culo. Ora per favore, finita la cena, tu te ne andrai per la tua strada e io per la mia, senza altre storie. –
– Ho capito. –
– Era ora. –
Finisco di consumare la cena in silenzio. So che gli ho fatto male e mi dispiace. Lui insiste per accompagnarmi sotto casa.
– Non vado a casa. –
Ha il buon gusto di non chiedermi dove andrò. Gli tendo la mano.
– Vorrei fare l’amore con te. –
– Ti ho già detto di no. –
– Ho bisogno di soldi per il treno. –
Gli allungo cinquanta dirham e lo saluto.
Internet point. Undici e mezza. Mi siedo all’unico computer libero osservando il ragazzo alla mia destra che si smanazza con destrezza e senza pudore alcuno davanti a foto di nudo.
Saïd mi chiama al telefono.
– Mi manchi. – gli dico.
– Scusa. Poi ti spiego. –
– Vieni? –
– Domani? –
– Okay. Domani. –
– Dormiamo insieme. –
– Non vedo l’ora. –
– Ti amo. –
– Ti amo anche io. –
– Tosbah ala khair. –
– Tosbah ala khair. –
Quando rientro il mio computer è ancora libero. E il tipo non si smanazza più. Scrivo di getto dieci righe dove maledico il mondo e tutti i mondi con lui. Chiedo di stampare la pagina, pago ed esco. Mi sento triste e incazzato. Non vedo Saïd da due mesi. Da cinque giorni sono in Marocco e non siamo ancora riusciti ad incontrarci. Comincio a non poterne più.
Apro la porta di casa e mi getto sul letto senza nemmeno accendere le luci. Mi masturbo. Poi faccio la doccia e mi infilo a letto.
Domenica. Dieci e mezza del mattino. Ho dormito a lungo. Riaccendo il cellulare che bippa subito un messaggio. “Grazie per la serata. Otman.” Rispondo di getto: “Grazie a te per avermi rotto i coglioni con i tuoi Io non sono come gli altri, e per essere riuscito, come tutti gli altri, a scroccarmi dei soldi e a chiedermi di scopare.”
Premo invio.
Forse la doccia laverà via questa crudeltà mattutina.
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